mercoledì 23 gennaio 2008

L'inviato Alberto Stabile ci illumina sul buio di Gaza.



Prova di coraggio del corrispondente da Gerusalemme Alberto Stabile che prende armi, bagagli e candele e va a Gaza a raccontarci la vita dei palestinesi della striscia più famosa del mondo (dopo i Peanuts) strozzata dall'embargo deciso da Gerusalemme.

NEL DESERTO DI GAZA, CITTA' ASSEDIATA.

dal nostro inviato ALBERTO STABILE

GAZA - Le acque nere delle fogne sono tracimate sulle strade della città assediata. Bambini e adulti devono
farsi strada a piccoli passi in un mare di escrementi. È bastato un giorno di black-out perché si formasse una fetida palude ad insidiare le case di Zeitun, lo stesso quartiere in cui la scorsa settimana sono stati uccisi 14 miliziani di Hamas in una sola notte.

Per risospingere indietro la colata, il direttore dell'acquedotto costiero, l'ingegnere Monther Shoblak, ha dovuto fare il gioco delle tre carte spostando il poco carburante rimasto da una pompa all'altra, delle 37 ancora funzionanti su un totale di 132, riuscendo così ad evitare l'inondazione e la probabile epidemia. Ma non ha potuto impedire che trentamila tonnellate di liquami non trattati venissero scaricati direttamente a mare.
Situazioni come questa per i prossimi giorni dovrebbero essere scongiurate. Ai cancelli della Centrale elettrica di Nusseirat, costruita nel 2000 con la partecipazione della bancarottiera Enron e la benedizione della Casa Bianca, vediamo arrivare di buon mattino la prima autobotte di carburante con le insegne dell'Unione europea, che paga anche questa bolletta. La centrale venne bombardata nel giugno del 2006, dopo il sequestro del soldato Gilad Shalit da parte di Hamas, e i suoi sei trasformatori vennero distrutti. E tuttavia resta un bell'impianto, un'isola di decoro e di efficienza, anche se, stando lì ai cancelli, ho l'impressione che l'autobotte che fa la spola con il terminale di Karni, per portare il combustibile sia sempre la stessa.
La buona notizie per gli abitanti di Gaza è, infatti, che il ministro della Difesa, Ehud Barak, ha autorizzato l'invio di 700 tonnellate di carburante sufficiente a far funzionare le due turbine della centrale per un paio di giorni. Domani e dopo ne dovrebbe arrivare dell'altro per un totale di duemila tonnellate e mezzo, in pratica, il fabbisogno di una settimana. Ma il manager dell'impianto, Mohammed Shariff, formatosi all'ombra di grandi compagnie petrolifere in Libia e nel Golfo, ostenta uno scetticismo che lui definisce "frutto dell'esperienza": "Ci crederò soltanto quando lo vedrò con i miei occhi".
Shariff, un sessantenne dalla barba ben coltivata, avvolto in un cappotto doppiopetto, una rarità da queste parti, sembra un uomo tranquillo. Interpreta il suo lavoro come "una missione" e parla della corrente elettrica come di un diritto naturale, "come l'acqua che beviamo e l'aria che respiriamo". Ripete che la centrale è una zona sottratta all'influenza della politica, in parole povere: né con Hamas né con Fatah. Una compagnia privata, e basta. Ma cosa risponde a commentatori israeliani che l'hanno accusato d'aver esagerato gli effetti dell'embargo, decidendo arbitrariamente di spegnere la centrale?
"Dico che non avevamo più neanche una goccia di carburante, a meno di non gettare nelle turbine residui pericolosissimi e mandare tutto all'aria. Il rappresentante dell'Unione Europea è venuto a verificare di persona. Lo stesso ha fatto il rappresentante delle Nazioni Unite. Qui tutti sono benvenuti, anche gli israeliani, se volessero farci l'onore. A parte il fatto che ci sono i media e anche i satelliti".
Una scialba, inanimata tregua scenderà, dunque, sul popolo degli assediati. La luce tornerà nelle case. I panifici torneranno a lavorare. I responsabili dell'Ospedale Shifa non saranno costretti a scegliere se continuare le dialisi o far funzionare le incubatrici. E questo sarà tenuto nel debito conto al Palazzo di Vetro, dove il Consiglio di sicurezza dell'Onu, su iniziativa dei paesi arabi, dovrà pronunciarsi.
Ma le concessioni israeliane non riguardano né il gasolio, né la benzina. E bastava percorrere le strade di Gaza, ieri, per vedere una città ridotta alla paralisi. Le macchine saranno pure inquinanti, fastidiose e troppo dominanti sulle nostre vite. Ma cos'è una città di cinquecentomila abitanti senza ombra di traffico per le strade? Le stazioni di servizio chiuse, i meccanici seduti a gambe incrociate fuori dalle officine?
La città e la Striscia, poi, sono ormai diventate quasi un unico agglomerato, una sola entità spaziale chiusa in cui si muovono come animali in gabbia un milione e quattrocentomila persone senza alcuna possibilità di uscire. Da giorni migliaia di donne premono alla frontiera di Rafah, con l'Egitto. Alcune accompagnano malati bisognosi di cure. Niente, la frontiera resta chiusa. Tensione. Incidenti con i poliziotti egiziani. Risultato: una cinquantina di feriti soprattutto a causa del calpestio.
Per gli abitanti della Striscia, Gaza era un tempo non solo la capitale, ma anche la risorsa estrema dove c'è, o dovrebbe esserci, tutto quello che è essenziale per sopravvivere. Dal suk all'ospedale, dal mercato degli asini (il venerdì) a quello delle auto usate (il martedì). Oggi è soltanto il luogo della questua e del mercato nero con la farina che in pochi giorni è passata da 140 shekels a sacco (50 chili) a 170 shekels, da 40 a 45 dollari.
Come in una scena da film del dopoguerra, lungo il vialone di Jabalia, nella luce livida della mattinata piovosa, ecco una macchina che avanza schiacciata da nove sacchi di farina ammonticchiati sul tettuccio. Mustafà Mugat l'uomo alla guida viene da uno degli uffici dell'Unrwa che sfamano gratuitamente oltre 800 mila persone. "Questo - dice indicando il castello di sacchi - è quanto basta a cinque famiglie per una ventina di giorni. Facciamo il fuoco con la legna per riscaldarci e per cucinare. Le donne fanno il pane per noi e per i vicini che hanno bisogno".
Cinquant'anni, disoccupato, "nessuno lavora più a Gaza", dice Mustafà che fino allo scoppio della seconda Intifada, nel 2000, lavorava in Israele con piccoli subappalti. Una lontana, irripetibile età dell'oro: "Riuscivo a guadagnare cento dollari al giorno, avevo due automobili, mentre ora sono costretto a elemosinare un sacco di farina".
A ricordare che tutto questo fa parte di una guerra in corso, qualche centinaio di metri più in là, un altoparlante nascosto chissà dove, ma probabilmente, quello di un minareto, manda ordini secchi alla popolazione. "I civili sono invitati a lasciare le strade e ad andare a casa. Gli aerei israeliani stanno per bombardare". Naturalmente non succede ma, mi spiega un amico che questo è un capitolo della guerra dei nervi, oltre a quella con i Qassam (ieri ne sono sparati oltre venti sul Negev) che Hamas combatte contro Israele. L'esercito israeliano spesso, prima di colpire, invita gli abitanti di un certo caseggiato ad uscire per evitare che facciano da scudi umani a certi "terroristi". La security di Hamas, al contrario, invita la gente a entrare in casa per proteggere chissà quale obiettivo.

(23 gennaio 2008) - La Repubblica

Nessun commento: