mercoledì 16 gennaio 2008

PapaRaus! Repubblica dedica 5 pagine al rifiuto del pontefice. Un fondo di Ezio Mauro sostiene che questo sarà un giorno che ricorderemo negli anni.



Lo storico rifiuto di Papa Ratzinger dopo le contestazioni all'università La Sapienza di Roma.

Su Repubblica cinque pagine di commenti con pezzi di Filippo Ceccarelli, Adriano Prosperi, Gianluca Luzi, Alberto Custodero, Giovanna Vitale, Marco Politi (of course), Anna Maria Liguori, Elena Dusi, Francesco Bei, Claudio Tito e Goggredo De Marchis.

E la chicca del commento in prima pagina dell'operoso Ezio Mauro che riportiamo qui sotto:

Un'idea malata di Ezio Mauro

Sarà' un giorno che ricorderemo negli anni, il giorno in cui il Papa non parlò all'Università italiana per la contestazione dei professori e la ribellione degli studenti. Una data spartiacque per i rapporti tra chi crede e chi non crede, tra la fede e la laicità, persino tra lo Stato e la Chiesa. Fino a ieri, questo era un Paese tollerante, dove la forte impronta religiosa, culturale, sociale e politica del cattolicesimo coesisteva con opinioni, pratiche, culture e fedi diverse, garantite dall'autonomia dello Stato repubblicano, secondo la regola della Costituzione.

Qualcosa si è rotto, drammaticamente, sotto gli occhi del mondo. Il Papa deve correggere la sua agenda e cambiare i suoi programmi, per non affrontare la contestazione annunciata di un'Università che lo aveva invitato con il rettore e il senato accademico, ma lo rifiutava con una parte importante di docenti e studenti. Il risultato è un cortocircuito culturale e politico d'impatto mondiale, che si può riassumere in poche parole: il Papa, che è anche vescovo di Roma, non può parlare all'Università della sua città, in questa Italia mediocre del 2008.

Questo risultato, che sa di censura, di rifiuto del dialogo e del confronto, è inaccettabile per un Paese democratico e per tutti coloro che credono nella libertà delle idee e della loro espressione. È tanto più inaccettabile che avvenga in un'Università, anzi nella più importante Università pubblica d'Italia, il luogo della ricerca, del confronto culturale e del sapere, un luogo che di per sé non deve avere barriere né pregiudizi, visto che non predica la Verità ma la scienza e la conoscenza. È come se la Sapienza rinunciasse alla sua missione e ai suoi doveri, chiudendosi in un rifiuto che è insieme un gesto di intolleranza e di paura.

Sbagliata l'occasione, puerili le proteste e le aggressioni, profondamente inadeguate le reazioni. Sbagliata l'occasione: l'inaugurazione solenne non è, in Italia e nell'università di Stato, un momento di severo bilancio dello stato di avanzamento delle conoscenze, un resoconto di ciò che ricercatori e istituzioni hanno fatto per progredire, un richiamo alle leggi sostanziali che sole governano la possibilità di ricercare e di conoscere ciò che non si sa.
Questo accade in altri luoghi; bisogna leggere il report annuale del Mit per avere un'idea della severità della scienza, non certo i documenti elaborati dalle nostre corporazioni accademiche sempre più immiserite e incanaglite.

L'inaugurazione è solo un momento di teatro, un rito di magniloquenza arcaica, di toghe e di ermellini e di alte uniformi, che si presta come pochi alla parodia e allo sberleffo (Totò lo sapeva bene). Un rito che passa per lo più inosservato - a parte gli intasamenti nel traffico e la noia di chi deve parteciparvi d'ufficio - in un paese dove molto si inaugura e poco si costruisce. Si taglia un nastro, si pronunziano parole solenni e poi le autorità se ne vanno e tutto resta come prima: ospedali, strade, ponti e certo anche i promessi istituti di "alta" ricerca, che fioriscono in luoghi diversi a seconda del ministro di turno.

Nelle università statali italiane di cui La Sapienza è sicuramente la più grande e la più nota la solennità del rito si misura dalle autorità che vi intervengono prima e più che dalle sonanti parole e dalle moralità alte che vi si predicano. E allora perché invitare il Papa? Tutti i giorni, spesso più volte al giorno, la parola del Papa è diffusa da tutte le televisioni italiane con una assiduità che non conosce l'eguale nel mondo. E perché non invitarlo? Gli si fa carico di una frase?

Dunque l'Università o una parte di essa si propone oggi come l'istituzione che ha il diritto di togliere la parola, di censurare un'opinione. Ma questo non è certo un risarcimento a Galileo, non è la vendetta postuma - a quanta distanza - del processo del 1632. E un rovesciamento grottesco dei ruoli grazie al quale l'erede dei giudici che allora imposero il silenzio allo scienziato fiorentino potrebbe - potrà - presentarsi da oggi col segno del martirio, come vittima dell'odiosa censura.

Ed è un vero peccato - nel senso banale della parola, beninteso - che nessuno degli attori, nemmeno il Papa, si sia dimostrato capace di andare al di là del canovaccio prevedibile. Perché rifiutarsi all'incontro? Perché non cogliere l'occasione di trasformare finalmente la seriosa noiosità delle inaugurazioni in una vera esperienza di comunicazione, di discussione, di parola libera e liberatrice in cui ciascuno si mette davvero in gioco abbandonando l'ingessata sicurezza della parola solenne e senza interlocutori? Qualcuno ricorderà il comizio di Lama: altri tempi, altri uomini. E non vogliamo comizi. Piuttosto, sarebbe bello se il mondo accademico italiano e tutte le autorità italiche imparassero il gusto dell'ironia, dell'amabile e graffiante intelligenza di chi ha veramente qualcosa da dire e cerca di dirlo pienamente.

Ora, alla contestazione è seguito il rifiuto. Sfrutterà il Papa quest'occasione di una specie di Porta Pia a rovescio? Ci auguriamo che nel suo animo di professore abituato alle vicende universitarie il senso della maestà offesa non prevalga sulla saggezza dello studioso e dell'insegnante obbligato al dovere di parlare, di ascoltare, di capire gli altri, di aprire le porte del dialogo per dare speranza di futuro alla specie umana in un pianeta a rischio.

Ma, se non lui, altri si occuperanno sicuramente di sfruttare questa censura e di amplificarla allo scopo di rendere ancor più salato il conto da presentare alle impaurite compagini governative, agli scalpitanti candidati alla successione del governo in carica. Tutto questo è anche, inevitabilmente, ridicolo, ma è vietato riderne: è, purtroppo, tragico, Appartiene al ciclo dell'implosione italica che dura da troppo tempo e non accenna ad arrestarsi.

Condividiamo tutto il senso di umiliazione di Vittorio Foa, che trova intollerabile, incomprensibile, stupefacente l'immagine di un'"Italia debole e infragilita" vista con uno sguardo che viene da lontano. Ma Foa sa bene che oggi l'arroganza dell'aggressione clericale viene dai pulpiti più imprevedibilmente: "laici" ne abbiamo un esempio nel rotolare di una parola - "moratoria" - dai seggi dell'Onu agli ambulatori ospedalieri una parola che rotolando muta di significato: significava sospensione della pena di morte, oggi diventa moratoria di quella legge 194, che fu a suo tempo esattamente una moratoria: quella della sentenza capitale incombente sull'aborto clandestino.

Dunque, moratoria della moratoria, sospensione della sospensione. Da chi verrà una parola di chiarezza, di conoscenza libera da bandiere e paraocchi, se le università che dovrebbero praticare l'unica ricerca degna di questo nome - la conoscenza di ciò che ci è oscuro e che ancora non sappiamo, una conoscenza quindi che non è né laica né ecclesiastica ma è solo e soprattutto fatta di libertà intellettuale anche dai propri presupposti del ricercatore - se queste università si abbandonano al gioco infantile del fare dispetti ai potenti, se le forze politiche non si decidono a dare alla scuola e all'università italiana i mezzi e gli strumenti per risalire la china della barbarie in cui vengono fatte precipitare da anni? Eppure questo, solo questo sarebbe un bel modo per celebrare coi fatti la memoria di Galileo Galilei.

(16 gennaio 2008) - La Repubblica

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