sabato 5 aprile 2008

Da cinque giorni è nello Zimbabwe col rischio di essere arrestato: Paiolo d'Oro all'inviato Giampaolo Visetti.



Due giornalisti sono già stati arrestati nello Zimbabwe e lui, imperterrito, continua da cinque giorni a scriverci cosa sta succedendo in questo paese africano nei giorni successivi alle elezioni che hanno dichiarato la sconfitta di Mugabe.

Parliamo ovviamente delll'inviato di Repubblica a Harare, Giampaolo Visetti, che per il suo coraggio si becca il Premio Paiolo d'Oro della redazione di Pazzo Per Repubblica.

Ecco il suo reportage apparso oggi su Repubblica:

"Vendiamo tutto, è il disastro"
dal nostro inviato GIAMPAOLO VISETTI

HARARE - La notte del regime è buia, vuota, ma affollata di fantasmi. Comprano e vendono ciò che resta del potere. Si preparano a scappare, o a diventare ricchi restando e scommettendo sul crollo della dittatura. Oppure scelgono di bere e di ballare, di innamorarsi per qualche ora perché la vita, in Zimbabwe, domani non si sa come sarà. Le strade della capitale sono deserte e silenziose. I chioschi che grigliano mais bianco e pezzi di pollo già spolpati, hanno chiuso in anticipo. Dove sono finiti tutti? Da giorni è così.

A un certo punto non si capisce dove vada a finire la folla che fino a pochi istanti prima sostava in fila davanti ai forni del pane, o ai bancomat. In molti quartieri manca la luce: la gente va a letto senza sapere se si sveglierà libera, oppure schiava dell'esercito. Appena sale l'ombra, ci si chiude in casa. Il centro di Harare è percorso solo da pick-up carichi di soldati. Non un assedio. Può capitare che non passa anima viva anche per mezz'ora. Poi, da lontano, si percepisce un rumore che sale. Sono mezzi vecchi, assordanti. E il plotone passa, mezzo addormentato sui cassoni.

Pattuglie della polizia, fino all'alba, zoppicano lungo i marciapiedi e si fermano a fumare agli incroci. Le donne-agenti sono in maggioranza. Robuste, qualcuna di più, sembrano casalinghe dirette a fare la spesa. Chiacchierano e sorridono. Si aggiustano l'elmetto in testa e cambiano il braccio che regge il fucile automatico. E' quasi mezzanotte. Tongogama Street è lastricata con punte di metallo. Nessuno, adesso, può transitare davanti al palazzo presidenziale e al ministero dell'agricoltura.

L'invisibile "Zimbabwe House", protetta dal coprifuoco, è circondata dall'esercito. Dal muro di cinta, tra palme e bungavillee giganti con fiori color crema, spuntano le bocche di due cannoni. Appena fuori dal centro, posti di blocco fermano chi esce dalla città. Il "York Lodge", nell'omonima strada di "Highlands", è sbarrato. Nessuno risponde al citofono. La polizia ha appena portato via i giornalisti stranieri arrestati. Attorno, ville eleganti e case all'inglese.

Uno degli ultimi farmer bianchi che hanno resistito ai sequestri di Mugabe, ha un appuntamento con gli amici. Sono terrorizzati. Accompagnati dalle mogli, a lume di candela, discutono e litigano. Non sanno cosa fare contro lo spettro della repressione. Bevono molto e qualche signora dà un tiro di sigaro. Quasi tutti hanno riempito di benzina le auto, comprato biglietti aerei, prenotato vacanze all'estero. "Se Mugabe non cede - è l'ossessivo ritornello - arrivano i generali. E se arrivano loro, ce la fanno pagare una volta per tutte".

Pregano di non fare i loro nomi. "Otto anni fa - racconta il figlio di un farmer a cui la dittatura ha confiscato tre fattorie vicino a Bulawaio - l'esercito ha avuto mano libera. I negri entravano in casa, rubavano e distruggevano tutto. Mia cugina è stata violentata, un nostro amico ucciso nel suo campo di tabacco".

Raccontano decine di storie: neri prepotenti, neri che non hanno voglia di lavorare, neri stupidi e incapaci, neri ladri, neri lenti. Bianchi generosi e pronti "a rimettere le cose a posto". I toni sono razzisti e non sono ammesse contestazioni. L'odio tradisce la paura di dover "prendere il volo" molto presto. Non amano Tsvangirai, "troppo sindacalista". Puntano sui fondi internazionali per la ricostruzione. "Il rand - dicono - sta salendo. Il Sudafrica non aspetta che di investire qui".

Se potessero, nominerebbero presidente Simba Makoni, perché "conosce gli affari e sa che quando sei nei guai ti servono i capitali, non i diritti dei lavoratori". Uno di loro trasporta ghiaia a Johannesburg. Dice che sabato scorso, il giorno del voto, i suoi camionisti hanno impiegato sei ore tra il confine di Beitbridge e Harare. La folla occupava le strade, festeggiando già la libertà. "Era come nel 1980 - dice - nel giorno dell'indipendenza. La verità è che Mugabe, senza brogli, non ha preso più del 10%".

A pochi chilometri, nello slum nero di Mbare, attorno alla collina di Kopje, pregano invece i neri che il regime ha reso schiavi. Nelle baracche attorno al mercato, sommerse tra i rifiuti, si ammassano cartoni, pneumatici sfasciati, bottiglie di benzina e bastoni. Un'umanità devastata si prepara a combattere. "Contiamo i battiti del cuore del vecchio - dice l'autista di un furgone - Questa volta, se non se ne va, gli faremo capire che regna sull'inferno".

Non si tolgono dalla testa le immagini di guerriglia del Kenya, ne fanno un punto d'onore. Ripetono che non possono accettare di essere umiliati per la sesta volta, senza alzare un dito. Però non posseggono armi, non sono organizzati, non sanno bene cosa fare, oltre che accendere un po' di fuochi.

Il paese reale non è negli alberghi, nei palazzi del potere e forse nemmeno nella sgangherata sede dell'Mdc. Muore qui, abbandonato in una puzza sorprendente, tra cumuli di bambini che non dormono mai e hanno sempre fame. Gruppi di nonne, nel cuore della notte, trascinano carretti di legno fino agli orti clandestini dei villaggi. Dall'alba, con angurie e pomodori ben impilati, dormono lungo i marciapiedi. A Mbare tutti sono vittime e tutti hanno votato per Tsvangirai. La polizia ha ordinato di non uscire di notte, se non cercano guai.

Restano solo vecchi, bambini, ammalati, qualche disperato che non lavora da anni. Sono troppo poveri per scappare. Molti sopravvivono grazie alle rimesse dei 4 milioni di zimbabwani rifugiati all'estero. "Se volete capire cos'è l'agonia di un dittatore - dice un ragazzo - andate sulla Nelson Mandela". In un palazzone a due passi dalla sede del partito del potere, gli uffici hanno le luci accese. C'è scritto: "Investimenti e sviluppo". Neri in cadenti abiti "tipo elegante" comprano e vendono case, terreni, aziende. I telefoni sono intasati, segretarie assonnate scrivono cifre, nomi di clienti, indirizzi. "I prezzi - dice un businnesman - continuano a salire. Fino a tre settimane fa la roba non valeva niente. E se va come deve andare, fra poco il mercato andrà alle stelle".

Un Paese all'asta nel cuore della notte, con le forze armate all'orizzonte e la popolazione sospesa tra speranza e sconforto. Il problema è che molti beni vengono improvvisamente tolti dal mercato. Domani varranno di più, presto forse il doppio: gli affari aspettano le soffiate di un certo "Tyson", infiltrato nell'ufficio politico del partito. I soldi invece si trovano a Msasa, sulla strada verso Mutare.

Berline scure sono parcheggiate sul piazzale della "Harrow", fuori dal centro commerciale "Doon Estate". Passano di mano bilioni di "zim dollars". Il mercato nero è protetto da uomini in divisa, che riscuotono "una tassa". Solo banconote da 10 milioni, stipate in sacchetti di plastica. Il cambio ufficiale è 30 mila dollari locali per1 dollaro Usa. Stanotte, se si cambiano almeno 200 dollari, si strappano fino a 6 milioni per verdone. "Se ti fermano senza la ricevuta della banca - dice un poliziotto - dì che te li ha prestati un amico".

Ormai vegliano tassisti, soldati, qualche portiere di hotel che offre "ragazze con il certificato medico nuovo". Ti fermano solo per dire che hanno votato per cambiare, che la fine è vicina, "in un modo o nell'altro". In Enterprise Road sembra invece di essere nella Salisbury di Ion Smith, prima del 1980. L'"Amanzi", club esclusivo in stile coloniale, resta deserto fino a mezzanotte. Poi però l'orchestra comincia a suonare Bob Marley, i Beatles, un po' di afro-funk.

Sbucano dal parco circa duecento persone ballano, cantano, scherzano e accumulano bottiglie di birra. Alcune tavolate, alle tre del mattino, ordinano carne alla brace, banane e patate. Ci sono canadesi, armeni, inglesi, italiani, americani, coloured, zimbabwuani bianchi e neri. Stanno tutti bene, parlano di vestiti e di andare in moto a vedere gli elefanti in Botswana. Le ragazze sono molto corteggiate. Fanno festa perché "è pur sempre giovedì sera". Il ristorante, tra cascate e ruscelli che disegnano un giardino tropicale, è blindato e chiuso da rotoli di fino spinato.

Alcune coppie girano abbracciate sulla veranda, seguite tra i tavoli dagli uomini di scorta. Passa un'altra cinica notte del regime in agonia: sono tutti prigionieri, all'"Amanzi" o a Mbare, decisi a non smettere di parlare per ore, purché si dicano cose senza importanza. Perché ognuno pensa ad una cosa sola: dov'è Robert Mugabe, cosa sta aspettando ad andarsene?

All'alba tocca a un commerciante di Mutare, a malincuore, accettare di raggiungere l'hotel Meikles, in centro. Nella piazza del parlamento alcuni poliziotti prendono a calci e manganellate due uomini a terra. Si erano calati in un negozio sollevando le lamiere del tetto. Hanno rubato alcune bottiglie di olio e una borsa di riso. Su certe cose il presidente non accetta scherzi.

(5 aprile 2008) - La Repubblica

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