Carlo Verdelli è il quarto direttore di Repubblica: succede a Mario Calabresi. Irrompe in un momento difficile del nostro Paese, soverchiato da forze sovraniste ed isolazioniste. Ho vissuto la fondazione di questo giornale, fin dai giorni dei suoi “numeri zero” (conservo un menabò di fine dicembre 1975). La Repubblica ha cambiato e svecchiato il giornalismo italiano, rendendolo più moderno e attento alle dinamiche sociali e culturali globali, cambiando con un lavoro in profondità il modo di scrivere ed operare, avendo una redazione che miscelava sapientemente l’esperienza delle grandi firme con un manipolo di giovani e con molte donne, costoro in una percentuale che nessun’altra testata poteva vantare, soprattutto per qualità e intraprendenza professionale. In pochi anni quel manipolo guidato da Eugenio Scalfari riuscì a rendere Repubblica il primo giornale italiano ed uno dei più reputati quotidiani del mondo. Una lunga stagione irripetibile, contrassegnata da una cura editoriale che costrinse i concorrenti ad inseguirne i modelli grafici e a trasformare il modo di scrivere, sia pure dopo crisi sistemiche (la vicenda P2 che colpì il Corriere della Sera), e crisi politiche (Tangentopoli, la morte della Prima Repubblica). Verdelli dunque eredita la storia giornalistica italiana più importante di questi ultimi quarantatré anni, un fardello pesantissimo, una sfida mostruosa in tempi di web e social network, i nemici dell’informazione cartacea e pericolosamente inclini ad ospitare fake news che ingannano e destabilizzano i lettori. È infatti sempre più difficile mantenere la fondamentale regola del giornalismo libero ed indipendente: non essere al servizio di chi governa, ma a quello dei governati, cioè dei cittadini, per difenderli dai soprusi e dalle violazioni della giustizia. Auguri, dunque, a Verdelli, da chi ha avuto la fortuna di partecipare al concepimento, alla nascita e alla progressiva esaltante crescita di un giornale che poi ha purtroppo conosciuto qualche problema di identità e coraggio, e che ha ceduto alle logiche delle cordate aziendali, sacrificando il patrimonio professionale acquisito dalla sua gloriosa ed impavida vecchia guardia.
Poi, alla netta domanda di un lettore che gli chiedeva il motivo del "siluramento" di Calabresi, ha così risposto:
Mi piacerebbe poter dare una risposta precisa, ma le mie informazioni sono di parte. È stato silurato dalla proprietà. Che forse si aspettava risultati diffusionali diversi o forse, ed è più probabile, desiderava un approccio meno caustico nei confronti del Pd e dei tentativi di spaccare il governo (lo spread che va su fa male a chi è indebitato...).
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Qualche feticismo sparso.
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Inizia (riprende) la fuga dei republicones: Antonio Monda è un nuovo giornalista della Stampa.
Sorrentino, invece, non scrive più per Repubblica. I più attenti se ne saranno accorti
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Sabaro 9 febbraio, Maurizio Crosetti nel suo pezzo su fumetti e calcio poteva citare anche i disegni di Paolo Samarelli, accanto a quelli di Silva. Dato che Paolo per Repubblica ha disegnato calcio per 35 anni.
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La paginata a pagamento di Lupo Rattazzi per Matteo Salvini (sempre Rep. di sabato 9 febbraio).
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Inizia (riprende) la fuga dei republicones: Antonio Monda è un nuovo giornalista della Stampa.
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La paginata a pagamento di Lupo Rattazzi per Matteo Salvini (sempre Rep. di sabato 9 febbraio).
Due errori che ci segnala l'amico genovese Sergio T. sempre da Repubblica del 9 febbraio.
In questa infografica di pagina 19, due Gran Bretagna sono troppe.
E, poi, a pagina 28, l'inviato a Sanremo Carlo Moretti dà della pisana a Nada. Se lei, nata a Gabbro, Livorno, lo viene a sapere, lo denuncia.
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Chiudiamo con un feticismo extramoenia:
Alla Stampa hanno titolisti che sanno bene "l'itagliano". I lettori sono proprio in buone mani. Avvisate la redazione di disattivare il correttore automatico.
1 commento:
Caro Pazzo,
il post su Fb del bravissimo Leonardo Coen, pur equilibrato e affettuoso nei confronti di Repubblica, non si fa del tutto apprezzare nel finale e certamente non per il guizzo critico che viene riservato al suo ex giornale. Avrei capito di più la posizione di Coen se avesse scelto di scrivere, nel suo periodo post-Repubblica, per Il Manifesto o, non sembri strano, per l’Avvenire di questi anni, ma mi sembra che dal pulpito (si fa per dire) del Fatto quotidiano ci sia qualcosa che non torna. Repubblica probabilmente avrà avuto pure i difetti che Coen individua nel suo post e però bisognerebbe evitare di vedere la pagliuzza ignorando la trave. E questa trave, nell’attuale giornale di Coen, si chiama manifesta faziosità, fiancheggiamento mane e sera di una forza politica con la pretesa di guidarne le scelte, sistematico ottundimento delle verità sgradevoli (tramite una serie di artifici retorici sui quali non sarebbe male approfondire lo studio). Coen scrive per un giornale-partito (esattamente l’accusa tante volte indirizzata dai suoi avversari alla Repubblica scalfariana) il cui direttore (dell’edizione cartacea) si presenta in pubblico con la faccia di Renzi, alle sue spalle, stampata sulla carta igienica. Ci consenta Coen (come direbbe il Berlusconi della sua epoca d’oro): meglio e mille volte meglio questa malandata e acciaccata Repubblica, meglio il giornale di Calabresi con tutti i suoi difetti, che il foglio per il quale egli mette a disposizione adesso la sua intelligente penna.
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