mercoledì 25 marzo 2020

"Per mett via el Gianni Mura siamo venuti in tre, numero massimo consentito" - Il reportage di Fabrizio Ravelli dal cimitero di Lambrate.

Davanti al cimitero di Lambrate hanno chiuso il capanno dei fioristi. Lì buttati per terra e destinati al cassonetto ce ne sono dei mazzi che sembrano anche in buono stato, ma fa brutto entrare con in mano dei fiori della spazzatura. C'è un sole spettacolare, ma all'ombra fa freddo. Il parcheggio è deserto. Il virus ha prosciugato e soffocato i funerali. 

I morti, quelli arrivano in gran numero sui carri funebri da 200 all'ora che vanno per la maggiore adesso. I parenti e gli amici no, vietato assembrarsi, a scopo sopravvivenza. Dare sepoltura in dialetto milanese si dice "mett via", metter via, il milanese può essere brusco. Così per mett via el Gianni Mura siamo venuti in tre, numero massimo consentito, ad accompagnare Paola che non fosse sola almeno qui. Quindi eravamo in quattro, come in "Ma mi". 

Distanza regolamentare uno dall'altro, mascherati come si deve. E quando il mercedesone con Gianni arriva, possiamo avviarci a passo lento, tempo ce n'è dicono. Campo quattro, a destra là in fondo. Passiamo davanti alla sala degli addii, che purtroppo in questi anni ho frequentato. Non serve, oggi. Nemmeno la cremazione, che Gianni non voleva. Ha chiesto la terra. 

Il campo quattro è praticamente uno sterrato dove rimbombano i motori di una scavatrice e di una ruspa. Insomma, un cantiere. Avete presente quei funerali dei film americani, l'erba verde e gli alberi? Ecco, tutta un'altra roba. Si aspetta e si aspetta, il cantiere è un po' in ritardo, si fuma una sigaretta di nascosto. In tre, amici e colleghi, più amici che colleghi, siamo una specie di delegazione. Dopo aver presenziato, riferiremo all'assemblea sterminata di quelli che avrebbero voluto essere qui. Se dovessimo piangere per tutti sarebbe un diluvio, quindi qualche lacrima che bagna la mascherina ma senza farsi accorgere, quando arriva la bara di legno chiaro e fiori semplici. 

Fosse qui Gianni, cioè fosse qui vivo, magari citerebbe il suo amato Brassens del Fossoyeur, quello che non augurava la morte a nessuno ma insomma anche lui doveva campare. Comunque qui nel cantiere anche Brassens suona fuori posto. Gli addetti, molto precisi e gentili, tirano fuori dal mercedesone con rulli che girano e motorini che ronzano, e un carrellino elettrico fino alla fossa. Poi giù di precisione con delle cinghie, c'è anche una tettoietta per quando piove. Che buca profonda, bisogna affacciarsi per vedere giù. Chiudono con delle specie di coperchi di metallo, dicono che poi fanno l'aiuola. Mettono una piccola croce di plastica. 

Fine, andiamo via, passo lento e testa bassa. Ci diciamo, anche per consolarci della tristezza di questo funerale in un cantiere, che il vero saluto a Gianni lo faremo più avanti, chissà quando, a virus terminato. 

Paola ci ringrazia di averla accompagnata, ha gli occhi chiari pieni di lacrime ma butta lì un sorriso. Ci salutiamo toccandoci il gomito, che è una roba che ti fa sentire un pirla.

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