mercoledì 18 luglio 2018

Far finta di essere sani (parte quarta).

Subito la bellissima vignetta di oggi di ellekappa.

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Ciao Pazzo, ti segnalo un passaggio del pezzo di Giuliano Foschini a pagina 40 di oggi: se non ho capito male c'entra lo stadio.

Fabio P.


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Botta e risposta a pag. 11 di oggi. Ricordando quando TB era dei nostri. Sigh.


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Segnaliamo infine un articolo apparso su Italia Oggi di ieri in cui Marco Travaglio racconta la sua esperienza a Repubblica e di come si stancò perché "lo tenevano nascosto".

Più sotto riportiamo il testo integrale del pezzo firmato da Gianfranco Ferroni.



«Faccio il giornalista perché sono un rompicoglioni. Giornali che rompono i coglioni, però, ce ne sono pochi. E io non mi sono mai sentito di sinistra, neanche prima, neanche quando mi scambiavano per uno di sinistra perché facevo le battaglie contro Berlusconi»: parola di Marco Travaglio. Paolo Mieli, grazie alla strategia del ragno, ha colpito ancora, in quel di Spoleto, durante il festival grazie all'organizzazione di Hdrà, intervistando il direttore del Fatto Quotidiano, presentato dal patron Mauro Luchetti come il direttore del Foglio, invece che del Fatto Quotidiano, provocando l'ilarità generale: la partenza è stata dedicata al karaoke, vera passione di Travaglio.
Questo il suo racconto: «Un grande mio amico mi portò un baracchino che proiettava sulla parete i testi delle canzoni, ci siamo divertiti molto quella sera e allora io geloso marcio di questo mio amico ho voluto comprare anche io un arnese per il karaoke insieme a un collega, Alessandro Ferrucci. Poi abbiamo cominciato a raccogliere le truppe per vederci ogni tanto, e poi è diventato un appuntamento settimanale fisso che si fa a casa di qualcuno, soprattutto di una nostra amica ristoratrice, Paola (Sturchio, ndr), del ristorante La Barchetta di Roma, a volte a casa sua, a volte anche a casa di altri, è ormai una tradizione di ogni settimana».

Mieli non sta più nella pelle: «Ma tu canticchiavi? Da dove ti viene questa passione?», con Travaglio disponibilissimo: «Sì, mi è sempre piaciuta la musica, mi è sempre piaciuto cantare, ho fatto due anni di pianoforte che adesso mi consente di fare qualche accordo». «Secondo me parleremo solo di questo», sibila Mieli, aggiungendo: «Ma tra i tuoi cantanti preferiti c'è Renato Zero, è possibile?», e Travaglio non si tira indietro dicendo che «Zero è quello che riesco a cantare meglio. La canzone che canto meglio è Baratto, però ce ne sono anche altre. Io in realtà da ragazzo vinsi una coppa di karaoke estivo in un villaggio turistico a Rodi Garganico per aver cantato una canzone molto seria, La donna cannone di Francesco De Gregori».

Mieli non molla la presa, evocando la canzone: «Ma è difficile, difficilissima. E siccome anche tuo figlio si occupa di musica, quindi è chiaro che c'è qualcosa. Ma canti sotto la doccia, mentre guidi, mentre altri guidano?», e Travaglio non nega nulla: «Sì, mio figlio fa il rapper quasi professionalmente. Sì, canto sotto la doccia e mentre guido, quando altri guidano chiedo il permesso».

Mieli apre il capitolo della Raffa nazionale. E Travaglio confessa: «Da bambino ero innamorato pazzo di Raffaella Carrà, perché oltre che bravissima era anche bellissima». Mieli, prontissimo: «Ma lo è ancora adesso». Travaglio è costretto a mettere rapidamente una pezza: «No, io dico quando ero piccolo è stata una delle prime donne di cui mi sono innamorato guardando la televisione, insieme a Nadia Comaneci, alle famose olimpiadi in cui esplose, e a Heather Parisi. Mi piaceva proprio, ogni tanto ci sentiamo: Boncompagni rivelò in televisione da Fabio Fazio che l'aveva sempre considerata una democristiana e invece l'aveva scoperta a leggere di nascosto il Fatto Quotidiano. Che la Carrà legga il Fatto Quotidiano per me è un onore, la adoro».

Contentissimo, Mieli allarga l'orizzonte: «Poi il secondo grande successo della vita di Travaglio è professionale, nel senso che è un grande giornalista, lo conoscete, ha messo su dieci anni fa un giornale in un'epoca in cui la crisi della carta stampata era iniziata e questo giornale ha incontrato i favori del pubblico, è andato in attivo, ha guadagnato e ha fatto guadagnare e adesso si quoterà in borsa. Credo che dopo la fondazione di Repubblica con Eugenio Scalfari sia un esempio riuscito di successo nella storia della stampa italiana di questo dopoguerra».

«C'era anche il Giornale di Montanelli», prova a contestare Travaglio. Mieli rintuzza subito l'uscita di Marco: «Si però il Giornale di Montanelli, che era diretto dal più grande giornalista italiano, senza dubbio, ha avuto bisogno continuamente di rifinanziarsi. Per noi che lavoriamo dietro le quinte queste cose contano.

La vera difficoltà è dopo il successo iniziale, l'ubriacatura della prima sera, tra l'altro tu l'hai conosciuta come giornalista della Voce: al quinto giorno sei sceso moltissimo e dopo due mesi si inizia a parlare di chiusura, bisogna andare a cercare aiuti economici da altri. Questo esempio del Fatto verrà ricordato: strano però che la gestazione sia passata per un lungo itinerario, e che non sia stato fagocitato immediatamente da Repubblica tutto questo percorso, tu a un certo punto hai anche rifiutato di entrare a Repubblica, come me lo spieghi? Contro Berlusconi condividevate toni e aggressività in questa battaglia, ma come mai Repubblica non ha fatto quello che qualsiasi, o voi non avete accettato che fosse fatto, di diventare una parte di Repubblica, la punta di diamante di Repubblica, perché no? Non mi trattare male».

Travaglio premette: «Preciso che dopo aver lavorato da ragazzo al Giornale di Montanelli, poi averlo seguito alla Voce purtroppo per due anni soltanto, poi essere rimasto disoccupato per tre anni, fui assunto da Repubblica alla redazione di Torino, direttore Ezio Mauro, e lì mi tennero un po' nascosto per tre anni finché al quarto mi stufai e me ne andai. Non posso dirmi di essermi trovato bene a Repubblica».

Mieli coglie l'attimo: «Secondo te perché? Tu nel frattempo cominciavi a collaborare all'Espresso. Perché venivi tenuto in un posto marginale?» Travaglio puntualizza: «All'Espresso mi trovavo benissimo con Claudio Rinaldi e Giampaolo Pansa. A Repubblica mi trovavo malissimo: penso dipendesse dal fatto che non ci siamo mai presi, non caratterialmente, nel senso che io non appartengo alla chiesa della sinistra e Repubblica è un po' una chiesa e un po' un partito, sentivano che non ero controllabile, che non ero disponibile. Io non ho mai pensato fra l'altro che Berlusconi sia di destra, non c'entra niente, fa affari, una cosa diversa dalla destra e dalla sinistra. Io ce l'avevo con Berlusconi perché faceva delle cose che non condividevo. E invece a Repubblica ce l'avevano con Berlusconi perché non era di sinistra, perché era il principale avversario della sinistra e perché la batteva, la sinistra. Perché era una questione di principio. Questo fatto di essere pregiudizialmente schierati con una parte politica a me non è mai interessata.

Ricordo che le frizioni nascevano ogni volta che c'era qualche scandalo che coinvolgeva la sinistra, era molto difficile far passare articoli sugli scandali che riguardavano la sinistra, mentre era molto facile far passare quelli che riguardavano la destra. Dato che io facevo la cronaca giudiziaria non mi importava di destra e sinistra, per loro non tanto. Questo ha creato queste incompatibilità, poi io non sono uno che va a lamentarsi, io se non mi trovo bene in un posto me ne vado.

E quindi me ne sono andato. Fortuna ha voluto che quando me ne sono andato fosse nato un giornale stranissimo che si chiama l'Unità, che tutti direte 'vabbé è il giornale della sinistra', no, in quel momento era stato rieditato dopo il fallimento come giornale di partito da un gruppo di imprenditori capitanati dall'editore Alessandro Dalai di Baldini e Castoldi, il quale aveva nominato direttore e condirettore due persone che curiosamente non avevano mai votato Pci, e cioè Furio Colombo e Antonio Padellaro, e quindi mi chiamarono».

Mieli, al volo: «Tu li conoscevi già?»

E Travaglio risponde: «Io conoscevo Padellaro, io collaboravo con l'Espresso di Rinaldi, e Padellaro era uno dei suoi vice. E quindi Rinaldi che era un po' il consigliere occulto dell'Unità di Padellaro e Colombo gli disse 'perché non prendete Travaglio che non si trova bene a Repubblica'? E quindi iniziai una rubrica che si chiamava Bananas, perché era il periodo di Berlusconi, insomma in omaggio all'ideale organizzatore dello stato libero di Bananas, che facevo tutti i giorni, e così sono andato avanti per qualche anno, fino a quando il partito che aveva inizialmente accolto molto felicemente la nascita del giornale che il partito aveva chiuso, rendendosi conto che quel giornale poteva essere molto importante e fare anche molta opinione (l'Unità di Padellaro e Colombo vendeva 50-60 mila copie, aveva una linea completamente diversa da quella della sinistra, la sinistra è sempre stata consociativa, almeno negli anni di Berlusconi, mentre quello era un giornale che veniva definito girotondino perché menava, menava a destra e menava a sinistra, e io poi in particolare)

Padellaro e Colombo credo si siano sentiti chiedere ogni volta da Fassino e dagli altri di licenziarmi, non lo fecero, fu fatto fuori Colombo, fu lasciato Padellaro e poi fu fatto fuori anche Padellaro, a quel punto ci siamo guardati in faccia con Antonio e abbiamo detto: «Vabbé, forse un po' bravini lo siamo, forse un po' di pubblico ce l'abbiamo, non abbiamo più un posto dove andare, quindi forse è il caso di provare a vedere se si riesce a fare un giornale libero, un giornale che non prenda ordini da nessuno e che non abbia editori. E allora abbiamo incontrato due manager molto bravi, una molto giovane, che è Cinzia Monteverdi, che è l'attuale nostro amministratore delegato che ci sta portando in borsa, e l'altro manager, molto bravo anche lui Giorgio Poidomani, facendo dei calcoli ha stabilito che si poteva sopravvivere semplicemente con i soldi dei lettori in edicola e degli abbonati.

A quel punto nacque la domanda: come fare a sapere quanti sono i lettori e gli abbonati interessati, prima di fare il giornale? Perché comunque c'è un break even, un punto di pareggio, sotto il quale non si può andare se no non si parte neanche o si fallisce dopo una settimana. E allora ci venne d'idea di dire: se volete questo giornale e vi fidate di noi, sulla fiducia, fate un abbonamento. Se poi noi riusciremo a fondare questo giornale ci teniamo i soldi del vostro abbonamento, se non ci riusciamo ve li restituiremo.

Così 15 mila persone versarono il loro abbonamento sulla fiducia, senza mai avere visto il Fatto Quotidiano, perché la cosa accadeva nell'estate del 2009, e noi siamo usciti il 23 settembre, sicuri dello zoccolo duro dei 15 mila abbonati, in aggiunta alle 35-40-45 mila persone che ogni giorno lo comprano in edicola».

«Una cifra davvero enorme, con dei costi agili», dice Mieli, pensando a un pallottoliere. Quindi a Travaglio tocca parlare della Rai: «Qualcuno ha scritto che con il nuovo governo io sarei diventato il direttore del Tg1, ma se mi offrissero questo accetterei un contratto di 24 ore con licenza assoluta di licenziamento per tutti i raccomandati. Le nomine per legge spettano ai partiti: spero solo che siano persone competenti e che poi si faccia come alla Bbc, dove può capitare che il direttore si scontri con il premier, eliminando la legge Renzi, che ha peggiorato la legge Gasparri. Mi piace, però, l'idea di Milena Gabanelli come direttore del Tg1». Dopo Travaglio, a Mieli tocca intervistare la Carrà.

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