sabato 28 marzo 2020

In memoria di Vince.

Pubblichiamo una bellissima testimonianza scritta da un collega di Vince (racconta molto bene cosa significa lavorare nei giornali).

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Max mi perdonerà e anche voi. Ma ho bisogno di scrivere queste cose e che altri le leggano. Aveva appena 48 anni, era mio amico e ci volevamo bene, è passato attraverso tanto dolore e solitudine. E oggi non c'è più.

Essere chiusi in casa e non poter organizzare un funerale dei peggiori pieno di amici, scrittori, amori, ladri, puttane, gente che sta sveglia tutta la notte e dorem un'ora è un aggiunta di dolore difficile da sopportare.
Max era arrivato alla Stampa con grandi intenzioni e speranze. Aveva fatto una straordinaria carriera a Repubblica partendo dal basso, dalla provincia, cronaca e sport. E ne era diventato caporedattore centrale.

Ora, per chi non sa cosa sia il caporedattore centrale in un grande quotidiano immaginatevi l'inferno, voi siete al centro, e siete al contempo satana e dannati, dura 14 ore al giorno e vi piace da impazzire.

Il caporedattore centrale deve sapere tutto di tutto e di tutti, deve saper reagire in un secondo a qualsiasi notizia di qualsiasi materia e individuare quale sia la persona migliore per partire e andare a raccontarla, o gestirla e titolarla.

E' uno dei lavori più belli e terribili in un giornale. Nella gerarchia sopra ci sono solo vicedirettori e direttore. Un bravo centrale a volte, se non muore prima, diventa vicedirettore. Ma non sempre, perché non è detto che lo desideri o che un perfetto sergente possa diventare colonnello.

Max diventò vicedirettore e dovette spostarsi da Roma a Torino, da Repubblica a La Stampa, due mondi molto diversi, molto più di quanto possiate immaginare quando sparate cazzate a vanvera sul "gruppo Gedi".

Come tutti noi che non siamo nati e cresciuti alla Stampa ma a un certo punto ci arriviamo, Max fu accolto con estrema diffidenza e cautela. Poche persone sono più lontane di Max dallo stile gozzaniano di certi colleghi che han sempre lavorato qui

E questo, ovviamente, ha fatto un gran bene al giornale, visto che ogni nuova forza, ogni persona che porta innovazione e coraggio in un giornale lo rinnova e lo fa vivere di nuove tensioni e nuovi desideri.

Ci siamo piaciuti dal primo giorno. Io stavo per rifiutare una meravigliosa offerta di lavoro di un altro giornale per motivi familiari. Andammo a pranzo, gliene parlai (era la prima volta che ci parlavamo). Mi disse di restare, che voleva lavorare con me e che insieme avremmo fatto grandi cose.

Era giugno o luglio, non ricordo. Ricordo che c'erano 38 gradi. Andammo in un posto vicino al giornale che ha solo tavoli all'aperto e mangiammo salsicce al sugo con una tonnellata di pane. A fine pasto c'erano 95 gradi, io rimasi alla Stampa ed eravamo diventati amici.

Lavorare con Max era molto semplice. Perché era bravissimo. Un animale da giornale, c'è poco da dire. Lo ha raccontato perfettamente Ezio Mauro nel pezzo che vi invito a leggere.

Un animale da giornale pensa solo al giornale, dal mattino quando si sveglia alla notte quando lo sogna. E' così, c'è poco da fare. Ti puoi svegliare nella notte in preda al panico e alla rabbia perché ti accorgi che un titolo era sbagliato.

Nulla è più importante per bestie di questo tipo che trovare la soluzione migliore per realizzare un servizio, una pagina, un reportage o una notizia di cronaca. Nulla di più desiderabile che fare un giornale migliore della concorrenza.

Una delle cose più stupide che in questi anni si leggono sull'internet sui giornalisti è: "dovreste prima o poi farvi un esame di coscienza". L'esame di coscienza i giornalisti se lo fanno 24 ore al giorno, di continuo, spesso macerandosi l'anima.

Max era giornalista nell'anima e nel corpo. Pronto a costruire un'idea e un secondo dopo a buttarla giù dalla torre se si accorgeva che era necessario cambiare. E questo nei giornali può essere terribilmente complicato e faticoso, perché sono fatti di carta, spazi fissi e piombo fuso.

Ma Max era sempre pronto a mandare tutto all'aria per rifarlo meglio. COn quel suo corpaccione da rugbista del terzo tempo, quegli occhi chiari e bellissimi, terribilmente fragili, nascosti dietro al muro del suo personaggio.
Max era un ragazzo di talento e pieno di curiosità, sensibile e fragile, e credo per questo si sia costruito attorno questo muro di orco divertente e cinico (solo per finta), sempre pronto alla battuta, al grottesco, all'abbuffata di vita.

Il suo personaggio era la sua condanna. Piango a scriverlo. E' stata la sua condanna. Era così bello e divertente e fastidioso e insopportabile e utile e dannoso che tutta la vita non ci è stata dentro. Max riusciva essere nello stesso momento adorabile e insopportabile. Non prima l'uno e poi l'altro: contemporaneamente.

E l'amore e l'amicizia sono fatti così, si vivono nonostante tutti i difetti o proprio per quelli. Chi si sente inadeguato alla vita con tutta la tragicità che questo comporta, tende a legarsi con altre persone di cui intuisce la stessa disperazione. I disperati sono una famiglia che si riconosce a prima vista e si ama per sempre, di un amore tragico anche se grottesco e divertente

Il suo personaggio era fatto anche di grande cultura, di passione per la letteratura e il teatro, per la musica. Conosceva a memoria i testi di un milione di canzoni che non esitava a cantare a piena voce con una delle più prodigiose stonature che la natura ricordi.

Era molto orgoglioso di aver comprato, anni fa, i diritti per la realizzazione a teatro di "Wired" la biografia di John Belushi. Ed essendo essa praticamente inmettibile in scena, rideva a pensare a chi dall'altra parte dell'oceano pensava a chi fosse quel coglione italiano che avesse comprato i diritti per il teatro.

Abbiamo passato al giornale un milione di ore insieme e altrettante di notte a tirar tardi quando ormai era già tardi se fossimo tornati direttamente a casa. Era molto conscio dei suoi pregi e dei suoi limiti.

Quando un giorno arrivarono al giornale magistrato di turno e forze dell'ordine per una denuncia particolarmente complicata a un collega, lui si presentò dicendo: "Sono Massimo Vincenzi, vicedirettore. Anche se non sembra".

Ogni giorno, una mezz'ora prima della riunione di prima pagina, veniva da me e discutevamo del premio "è giornalismo" di giornata (senza offesa per quello vero che sapevamo non avremmo mai vinto eh, per carità). una volgarissima, insopportabile, crudele rassegna delle peggiori minchiate che avevamo letto su giornali e siti, corredata da commenti sconci e inopportuni sulle donne più attraenti del mondo in quel momento.

Ogni tanto prendevamo di mira con un nonnismo da film anni settanta qualche giovane collega, magro e avvenente. E Max partiva con la sua invettiva: "Facile così, alto bello e magro. Ma noi ce la siamo dovute sudare tutte! Farle ridere, incuriosirle, ascoltarle! Abbiamo sudato sette camicie per scopare e non c'era manco internet!". Il che, peraltro, era pure vero.

Come molti bravi giornalisti che ho conosciuto, Max era interessatissimo ai giovani. Passare il mestiere è una delle cose più bella da fare per un certo tipo di giornalista. Ma puntare su di loro, ascoltarli, andarci a cena serve anche a noi vecchi vampiri per tenere gli occhi aperti su un mondo che non è più nostro e ascoltare in diretta come ci giudicano. Di solito delle merde, però simpatiche.

Max però viveva di fronte a un precipizio. Tutti i giorni davanti a un abisso. Spero per voi che non possiate capire di cosa sto parlando. L'abbiamo vissuto insieme. E abbiamo perso.

Dopo anni a Torino, Max era tornato a Roma, la cosa migliore. L'ultima volta che ci siamo sentiti, qualche settimana fa, a febbraio, mi raccontava che stava davvero bene, che aveva imparato a non vivere di solo lavoro e che voleva prendersi il suo tempo per fare le cose.

Aveva deciso di scrivere delle storie lunghe (dei long read che era del Kansas) perché aveva voglia di raccontare. Mi chiese se potevo leggergliele e correggerle, così come facevamo tutte le volte prima di pubblicare qualcosa a cui tenevamo.

Gli dissi che lo avrei fatto certamente, molto volentieri.
Mi disse che mi voleva bene.
E gli dissi che gliene volevo anche io.
Nessuna di quelle storie mi è mai arrivata.

E ieri il messaggio "è morto Max" mi ha precipitato qui, nel mio abisso, dove mi vedete ora.

Addio Max, amico mio, sarai sempre con me. Ti prego, perdonami se puoi.

Alberto Infelise - Facebook

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