«A me che sarò molto più triste, al resto del mondo non me ne frega più di tanto. Io spero che continueranno a esserci pezzi di colore perché credo in questo tipo di giornalismo che è un giornalismo più lungo che corto, più umano che superumano. Di Pantani avevo detto che sembrava uno che aveva rubato la bici e aveva bigiato scuola. Credo che proprio la retorica l’ho schivata. E quindi per questo tipo di giornalismo mi dispiace. Forse rispunterà quando tutti si saranno stufati di leggere dei pezzi che sembrano dei verbali di polizia stradale e forse ci sarà qualcuno che riporterà in alto il genere. Non si ritiene più necessario mandare al Giro giornalisti-scrittori com’erano Buzzati e Pratolini, è più facile che li mandino per un Mondiale di calcio. Io vedo un barlume di speranza in questo senso: questo tipo di giornalismo, a tanti o a pochi, per quanto mi risulta ancora a tanti, continua a piacere. Ma è abbastanza difficile tenerlo in vita. Pratolini o Gatto erano sempre l’inviato in più, di letteratura, rispetto all’inviato ciclistico. Io ho potuto tenerlo in vita perché ho fatto il triplo inviato in una persona sola, quello che chiamo “effetto spugna”: faccio la corsa, l’essenziale delle interviste e se c’è del colore ce lo metto. Una persona costa meno di due come inviato. Il fatto che io parli dei girasoli è perché essendo lì sento il dovere di dare qualcosa di quello che vedo. Le fasi di corsa il lettore le ha già viste. L’importante è rispettare l’importanza delle cose, per cui se c’è una tappa veramente “a tutta” possono anche esserci 700 chilometri di girasoli e io ne parlo appena; se non è successo un cazzo e devo fare come minimo 85 o 90 righe allora ci metto anche il paesaggio».
Intervista di Emanuele Prina, Rivista Undici, 29 giugno 2016
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