Era nato d'ottobre, il 9, nel 1945 e vent'anni dopo frequentava già redazioni di giornali. Come dire 55 anni di carriera, a seguire soprattutto ciclismo e calcio e a farsi conoscere e amare dalle persone più diverse e lontane dagli stadi, senza mai aver gradito i riflettori e avendoli anzi evitati al possibile. Il caso Mura, si potrebbe intitolare: e lui subodorerebbe subito il calembour un po' sfacciato.
A proposito del giornalismo sportivo è facile pensare sciocchezze e, anzi, dopo la scomparsa di Mura diventa (quasi) lecito. Si pensa che il giornalista sportivo non possa che essere un esperto di statistica e gossip di spogliatoio messo lì a scrivere; così come sarà un necrofilo adoratore di questori ogni cronista di nera e un mellifluo adulatore ogni cronista parlamentare. È anche facile ignorare che le cronache sportive sono nate quando i quotidiani si sono finalmente chiesti cosa davvero interessasse al loro pubblico potenziale (Usa, fine '800; ma la storia si è ripetuta in piccolo anche a Repubblica, alla fine degli anni '70). Proprio i gergalismi secchi e penetranti del linguaggio tecnico sportivo cambiarono la lingua dei giornali che sino a quel momento era stata sussiegosa, compunta, remota. Ma poniamo il caso di uno che arrivi a parlare di sport partendo dal corpo e dalle sue tecniche e possibilità, mettendo a fuoco ciò che si chiama "il gesto atletico" ancor prima del risultato agonistico e considerando questo un effetto di quello.
È infatti il caso di Gianni Brera (1919-1992) che ha mostrato a tutti che al giornalismo sportivo la scrittura serva ancor più che ad altri settori, poiché deve saper evocare verbalmente non ordinari ammazzamenti o decreti-legge bensì gli esiti plastici della mutua competizione dei corpi più agili e più potenti del mondo. Brera considerava Mura il suo migliore allievo e forse qualcosa in più; fece notare alla propria moglie il profilo e le disse: potrebbe essere figlio nostro. Mura ricambiava con sincerità e ha poi riservato al suo maestro omaggi postumi struggenti. Però il suo caso era diverso, e lo era per una parte non trascurabile.
Certo, le cronache delle partite; certo, le paginate quotidiane dal Tour de France – raccolte nel migliore dei suoi libri (La fiamma rossa. Storie e strade dei miei tour, Minimum Fax, Roma 2008); certo le rubriche con le pagelle dei Sette giorni di cattivi pensieri e quelle dense di protagonisti a fine anno, le recensioni enogastronomiche di Mangia e Bevi, composte per anni assieme alla moglie Paola sul Venerdì di Repubblica. Ma non penso di esprimere un parere particolarmente bizzarro o snob quando affermo che (se proprio occorre indicarne uno) il genere di eccellenza assoluta di Mura, quello dove era davvero inarrivabile era l'intervista. Aprivi il giornale e c'era un'intervista di Gianni Mura: ancor prima di leggerla era un giorno fortunato. Quanti personaggi che credevo antipatici, quanti che credevo insignificanti, quanti che non avrei immaginato fossero così arguti, di quanti ho pensato "ah, qua Gianni è andato sul facile" per poi accorgermi che no, era riuscito a tirare fuori qualcosa di inatteso, uno scorcio perfettamente inedito, la battuta epigrafica... In questo si vede come il maestro di Mura – ancora prima e più di Brera (che pure era intervistatore sommo) – è stato Beppe Viola. Se Brera arrivava allo sport dalla parte della tecnica, dell'atletica, dell'anatomia e della fisiologia, sino a quelle considerazioni storico-etnologiche che a molti facevano un effetto un po' così, mi pare di poter dire che Mura (come Beppe Viola) ci arrivasse innanzitutto dalla parte dell'umanità. Questo è anche pericoloso, poiché fa rischiare la melassa e il generico. Per tenere a bada i buoni sentimenti però Mura aveva abbastanza cattivi pensieri. E poi aveva la conoscenza: minuziosa, esasperata, servita da una memoria ineguagliabile. L'occhio clinico che non sbaglia: diagnostica al primo colpo stati di forma fisica e psichica; l'archivio mentale che connette con prontezza i casi ai precedenti; la sintassi sicura, a cui non servirà una revisione per eliminare le frasi sciatte perché tanto non le capita di produrne si può dire mai.
Beppe Viola, e la poesia: il cinismo della battuta, il sorriso che le cambia il segno; l'insofferenza per i conformismi, il rigore stilistico e morale applicato intanto a sé stessi; l'agio solo negli ambienti popolari, il rifiuto esplicito di lussi e privilegi, e l'amore assoluto per la parola, l'immagine poetica, Prévert.
Lo sport era per Mura una vicenda interessante da raccontare in quanto coinvolgeva le passioni e le possibilità di uomini e donne, i corpi e le menti, l'estro e la disciplina, l'umiltà e la gloria del trionfo popolare. Attorno ma non troppo distante stavano le sue proprie passioni collaterali: la tavola, il gioco, la poesia, la canzone, l'enigmistica, la letteratura poliziesca, la Francia.
Scriveva per la Repubblica sin dalla fondazione, è entrato nell'organico come inviato dal 1983. La sua perdita è fra le altre cose un durissimo colpo per il quotidiano, che dopo Vittorio Zucconi perde un'altra delle sue firme storiche, una delle ultime fra quelle ancora attive. Da maggio, ogni giorno usciva sull'ultima pagina del giorno un suo calembour, nella rubrica "Spassaparola". Su Repubblica del 21 marzo 2020 la parola del giorno era "Fascia" e la sua definizione: "Tagliente striscia di tessuto". Il taglio della precisione, e della battuta; la morbidezza della sintassi, e dell'intenzione. I suoi lettori lo indovinavano con facilità: burbero e amico, con tutti e soprattutto con loro.
Stefano Bartezzaghi per Doppiozero
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