giovedì 16 aprile 2020

Vorrei porre l'attenzione su una cosa orrenda che si chiama Tracce (Critichiamo ciò che amiamo).

Critichiamo ciò che amiamo. 

Leggete cosa scrive su Facebook Maria Clara Restivo a proposito della rubrica Tracce di Maurizio Crosetti. 

(Maria Clara scrive storie per bambini e poi le racconta ad alta voce. Da diversi anni collabora con la Scuola Holden dove insegna storytelling)

Vorrei porre l'attenzione su una cosa orrenda che si chiama Tracce e viene pubblicata su Repubblica.
Credo sia l'ennesimo tentativo andato male (malissimo) di fare storytelling.
Il sottotitolo è Vite prima del virus e si danno cinque righe di informazioni (più una foto anch'essa orrenda) su alcune persone defunte a causa del coronavirus.
Ora.
Questa pratica (non tecnica, ma poi spiego perché) di fare un necrologio meno spersonalizzato è vecchia e letteraria, non c'è nulla da inventare. Questo però funziona quando si sostituisce a un elenco di informazioni una narrazione. Gli americani in questo fanno paura, un esempio su tutti è la mostra In memoriam all'interno del Museo dedicato all'XI Settembre.
Questa esposizione si basa esclusivamente su oggetti, reperti, documenti audio, video, scritti di chi se n'è andato a causa di quell'evento.
Può non piacere? Può.
Può sembrare una melassa patriottica e esagerata? Può.
Il risultato comunque è che tu stai male come un cane, anche se non vuoi, anche se sei anti americano, anche se non ti piacciono i film di Clint Eastwood. Perché?
Perché c'è della tecnica (si parla di sedersi a un tavolo e costruire la commozione, proprio come fanno alla Walt Disney). E perché c'è della tecnica le vittime non appaiono macchiette ma simili, tuoi, miei simili. Quella mostra ti dice: stronzo, potevi essere tu.
Questo non accade con Tracce.
Il risultato di questo tentativo (che è anche brutto esteticamente) è che ti viene da ridere. Perché non c'è storia, ci sono aggettivi. Non ci sono azioni, ma giudizi (che sono buoni a prescindere).
E a me non va. Perché persone sono morte, certo. Ma anche perché sappiamo farlo, sappiamo anche noi raccontare e quindi meritiamo che anche di questo evento ci sia una narrazione degna che restituisca la complessità del momento, non solo le emozioni, la pancia.

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