A chi segue, insegue e forse persino pratica il ciclismo, oggi è saltata la catena.
Proprio nel momento decisivo, prima di attaccare l’ultima salita, quella che ti può portare dove volteggiano gli Aironi, i Pantadattili, i sognatori e i vecchi (come me), di colpo il nostro Giro nella bellezza, nella competenza e nell’onestà, s’è inceppato.
Questo ritiro proprio non ci voleva.
Appena due mesi fa, saperlo col fiatone, quell’uomo solo al comando del giornalismo sportivo italiano, mi aveva fatto venire il magone. Dopo un primo contatto per sapere cosa stesse succedendo dalle sue parti, il 18 di gennaio Mura mi aveva scritto una mail: “Mi spiace Till, ma per un po’ sarò in clinica per una polmonite. Ad maiora. Gianni”. E io, di rimando, ma sempre fiducioso: “Se non ricordo male avevi smesso di fumare… come te la sei beccata? …dai, per il Laigueglia e le Strade Bianche sarai di nuovo lì, sui tuoi amatissimi saliscendi, tornanti, sterrati e pavé”. Ma come sempre, anche di quella volata che oggi si sarebbe rivelata come la conclusiva, il momento della verità l’aveva deciso unicamente lui: “Non avevo smesso di fumare, solo diminuito il numero. Resto ottimista. In gamba Till. Gianni”.
Quella sua polmonite non aveva nulla a che fare con la drammatica attualità di questi giorni. Per Gianni, fumare non era solo un male curabile, ma prima ancora un vizio indispensabile. Idem con patate, puré e pommes frites per quanto riguarda la bilancia – non intesa solo come segno zodiacale (era nato il 9 di ottobre) ma come imbattibile peso massimo nell’assaporare e giudicare il cibo genuino nelle trattorie, negli alberghi e nei ristoranti, possibilmente ottimo e abbondante. Ce lo raccontava settimanalmente e liberamente in tutte le salse, cotture e intingoli immaginabili su Il Venerdì, sempre in bella e sapiente compagnia della sua inseparabile sommelieuse – e moglie – Paola.
Di domenica i miei riti propiziatori non mi portavano mai allo stadio o in chiesa, ma dritto dritto nell’edicola dove puntualmente m’aspettavano i suoi «Sette giorni di cattivi pensieri». Pensieri a volte anche micidiali, ma sempre lucidi, semplici, puliti, onesti. Certo, non le mandava a dire, la cosiddetta sudditanza psicologica nei confronti di chicchessia, non faceva parte del suo glossario – al massimo avrebbe potuto far rima con l’ignoranza, la tracotanza e l’arroganza di buona parte dei suoi colleghi, soprattutto di quelli che si trastullano tra sponsor, managerazzi, agenti e spogliatoi dei paesi tuoi.
Gianni Mura amava giocare con le citazioni, le lettere, le parole: non solo praticava i suoi volteggi verbali con ineguagliabile maestria, ma a volte sapeva anche trasformarli in inappellabili sfottò. Una delle sue vittime preferite fu il musone-lusitano di un Appiano sempre meno gentile e appena divinizzato dai soliti noti con il sommo grado di The Special One – prontamente trasfigurato da Mura nel tamarro meneghino-pallonaro specialone.
I nostri amori ciclistici e calcisti collimavano come le tessere di un puzzle ritagliato solo per noi due: di qua le sagome di Coppi, Poulidor, Gimondi, del tragico Pantani e del sagace Sagan, di là i profili dei vecchi e meno vecchi Rocco, Scopigno, Cruijff, Facchetti, Riva, Boninsegna, Zola, Xavi, Kakà e, per farmi contento, ogni tanto Mura ricordava anche i “miei” compagni d’infanzia Kübler e Koblet, Vonlanthen e Allemann.
Noi due ci eravamo annusati nel lontano 1998 quando via lettera lo ringraziai per un suo toccante pezzo che raccontava la grande Joyce Lussu, appena deceduta – e lui, con mia grandissima sorpresa, mi controringraziò – sempre per posta cartacea. Lo scambio, questa volta telefonico, si sarebbe ripetuto cinque anni dopo in occasione della dipartita di un suo rivale giornalistico nonché amico, suo e mio, Marco Guarnaschelli Gotti, il poliedrico autore della Grande enciclopedia illustrata della gastronomia. Visto che in quel periodo (lui a la Repubblica in via de Alessandri, io alla Mercurio in via Verga) praticamente eravamo diventati vicini di casa, editrice e di produzione, avevamo deciso che forse era venuto il momento di tentare un primo timido tête-à-tête. Non solo quei due ornitorinchi mezzo sardo-elvetici mezzo milanesi non si dispiacquero, ma riuscirono persino a diventare amici. Sbocciò un legame etico, letterario, musicale ed eno-gastro-ciclo-pallonaro che avremmo consolidato e innaffiato con decine di tavolate – sempre in naturale combutta con i più bravi cuochi, ma rigorosamente lontani dai celebrati chef. E visto che l’appetito viene anche scrivendo, quando si trattò di presentare il mio pamphlet Astri e disastri, nella sua Repubblica Gianni firmò un’intervistona che mi fa arrossire ancora oggi. Ma forse la nostra empatia sbocciò al meglio quando Mura, allora anche direttore del mensile “E” di Emergency, mi affidò una rubrica titolata “Grill” nella quale ci divertimmo come matti a sputtanare il gergo dei neo-cretini che giorno dopo giorno (sorry: day-by-day) erodono e svuotano la lingua degli innamorati, di Carlo Emilio Gadda, della lista della spesa, della Costituzione della repubblica e di Erri De Luca.
Ogni volta che Mura cantava le gesta di un suo caro appena dipartito, lo salutava con un augurio laico, di lontane origini pagane: «Che la terra gli sia lieve». Oggi non riesco a fare altro che pensarla e praticarla esattamente come usava lui – ma solo dopo aver dilatato il canonico minuto di silenzio in «Sette minuti di ottimi pensieri», tutti quanti felicemente e sommessamente ispirati a lui.
Till Neuburg - per Dixit Cafè
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