venerdì 6 luglio 2007

La morte di Claudio Rinaldi nel ricordo di Bocca, Pansa e Ajello.


La morte di Claudio Rinaldi è stato un cazzotto nello stomaco per tutta la redazione di Repubblica. In prima pagina un breve ma intenso ricordo affidato al "collega storico" Giorgio Bocca. E poi la scelta di dedicare a Claudio il paginone centrale della cultura con due pezzi di Nello Ajello e Giampaolo Pansa.

A proposito di Pansa, altro collega storico di Rinaldi, riportiamo qui sotto il pezzo che uscirà oggi su L'Espresso:

E' morto nel sonno, Claudio Rinaldi. Nel piccolo sonno del primo pomeriggio, un'abitudine che per molto tempo non aveva avuto.
Morire nel sonno è il sogno di molti, quando pensano alla morte. Perchè vuol dire andarsene all'improvviso, senza soffrire. Ma Claudio di sofferenze ne aveva patite molte e ne ha patite sino all'ultimo istante, prima di chiudere gli occhi per sempre. Era malato da tanti anni, però non si considerava così. Era un uomo di forte carattere, molto determinato e assolutamente restio al lamento. Anche nei momenti più duri del suo male, ha sempre rifiutato di parlarne.
Gli chiedevi come andava, lui alzava le spalle e cercava subito di passare ad altro.

Per Claudio, l'altro era la politica italiana. Era questo il suo interesse vitale, anche nel senso che lo teneva agganciato a una vita sempre più difficile da affrontare. Ma non era un militante, non lo era mai stato, nel senso classico del termine. Era un giornalista integrale che osservava lo zoo dei partiti con un occhio scaltro, disincantato, pronto a rilevarne gli aspetti grotteschi. Nei suoi articoli e soprattutto nei giornali che aveva diretto, dapprima "L'Europeo", poi "Panorama" e infine "L'Espresso", si avvertiva sempre un sorriso ironico, di grande distacco. Come se volesse dire ai big dei partiti: non prendetevi troppo sul serio, sono ben altre le sfide della vita.

Come direttore, Claudio era anche un comandante. Anzi, un capo banda. Sapeva sempre quel che voleva. E non aveva incertezze nel chiederlo ai giornalisti che lavoravano con lui. Accettava di discuterne solo con i collaboratori più stretti. Ti ascoltava sorridendo, quasi pensasse: sentiamo un po' che cosa vuole questo qui... Se ascoltava un'obiezione convincente, ti diceva soltanto: adesso ci penserò... Quando il consiglio gli sembrava utile, poteva cambiare una briciola del suo programma. Ma tu lo scoprivi soltanto a cose fatte.


Ho lavorato con Claudio all'"Espresso" per otto anni, dal luglio 1991 al luglio 1999. Ero la sua prima "spalla", il condirettore. Ma di fronte a lui mi sentivo come l'ultimo dei redattori. Ossia, sempre sotto esame. Il miracolo del nostro lavoro in comune è che anche lui, nei miei confronti, si sentiva come mi sentivo io. Sempre sotto esame, come direttore. Un giorno mi disse: Giampaolo, mi fai soggezione perché non hai nessuno scrupolo nel mandarmi a quel paese... Ricordo quegli anni come un tempo irripetibile. Claudio amava soprattutto la propria indipendenza di giudizio, anche perché la considerava l'elemento numero uno di successo per il giornale che gli era stato affidato. Era questo il fattore umano e professionale che ci rendeva molto simili. Se qualcuno mi chiedesse com'era Rinaldi, avrei una sola risposta: era un anarchico individualista. Una qualità sempre più rara nel giornalismo italiano.

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