giovedì 31 gennaio 2008

Processo per la strage di Erba: Randacio da solo non fa audience, chiesto l'aiuto di Pino Corrias.



Pino Corrias (foto), già autore di "Vicini da morire" (libro sulla strage di Erba), corre in soccorso di Emilio Randacio nella pagina dedicata al processo in corso a Erba contro i coniugi Romano.

Due inviati per un'intervista a Mubarak.



Bella intervista a Horni Mubarak sull'andamento delle cose in Medio Oriente. La firmano addirittura in due: Nicola Lombardozzi ed Alix Van Buren, inviati a Il Cairo.

mercoledì 30 gennaio 2008

La dolce Concita ci spiega la fine della love story tra Veltroni e Berlusconi.

L'idillio è già finito, arrivano i duellanti.
di CONCITA DE GREGORIO

ROMA - Sono come due che non sanno come dirselo: è finita, peccato. Veltroni ci prova ancora: "Si poteva fare, eravamo a un passo. Si può fare se si vuole". Berlusconi sta sulla difensiva, si vede che si sente quello che pianta l'altro da un minuto all'altro - in colpa, diciamo pure - e come in questi casi capita esagera: "Non avrebbe mai funzionato", se la racconta e la racconta così. L'idillio non è durato niente, nemmeno due mesi. Un amorazzo estivo fuori stagione.

Erano i primi di dicembre, loro in conferenza stampa appena leggermente differita e i giornali a titolare: "Veltrusconi", eccoli qua i campioni della nuova stagione della dissimulazione politica, della memoria corta e della convenienza lunga. Insieme per fare le riforme e che piacere vederti, e mio caro, e prego passa pure prima tu, ma no che i comunisti non mangiavano i bambini, scherzavo. Certo che era un matrimonio di opportunismo e non d'amore, del resto stiamo parlando di politica: un matrimonio "di scopo", si direbbe ora. Giusto per fare la legge elettorale e poi ciao.

Niente, invece. Sessanta giorni scarsi ed ecco un altro film. Stessa scena, quasi. Stesso palco solenne, questa volta al Quirinale. Stessa sequenza: prima uno poi l'altro in favore di telecamere. E' caduto il governo nel frattempo, questa è la non secondaria novità. Berlusconi voleva cambiare la legge elettorale dalla sua stessa maggioranza concepita, il "Porcellum" (latino maccheronico da "porcata", non ce lo dimentichiamo) ma ha cambiato idea: ora vuole votare subito, una nuova convenienza preme alla porta. Veltroni voleva cambiarla e coerente insiste, votare subito sarebbe una tragedia "riprodurrebbe lo stesso scenario" (se anche fosse a parti invertite cosa cambierebbe?, è il sottotesto implicito). Dice che se "si è animati dalla voglia di farlo è possibile, se non si ha voglia bisogna dirlo chiaro". Non ho voglia, lo dica Berlusconi: non ho più voglia, è un capriccio un calcolo una porcheria. Scene da un divorzio forzato, come se da qualche parte ci fosse una moglie che richiama all'ordine. Per esempio Fini, o Bossi e la Lega.

Berlusconi difatti si presenta al Quirinale con Tremonti che dei rapporti con Bossi è sempre stato ed è il garante. Non attacca Veltroni anzi una volta lo cita come testimone a favore ("è lui che ha detto che il centrosinistra è un caravanserraglio"). Devia senz'altro verso un folkloristico siparietto sui problemi dei ristoratori italiani a New York: c'è un suo amico che lo ha chiamato per dirgli che gli americani da quando hanno visto sulla Cnn le immagini dei rifiuti a Napoli disdicono le prenotazioni e vanno al ristorante francese. Anche l'immondizia in favore di Sarkozy, maledizione. E' già chiaramente in campagna elettorale, il Cavaliere.

Sono due discorsi da campagna elettorale, in effetti, le lunghe dichiarazioni stampa dei leader dei due schieramenti reduci dall'incontro con Napolitano. Un'ora a testa con cinque minuti di comporto per far uscire uno e far entrare l'altro senza che si incontrino, come dall'analista. E come in seduta dal terapeuta ciascuno va a dire, onestamente quanto può, le ragioni del suo agire. Berlusconi sa che Napolitano non ha gradito affatto il suo appello alla piazza, la "marcia su Roma" minacciata in caso di mancate elezioni. Nega, si dice mal interpretato.

Lo ripete poi fuori ad uso dei tg, "una vergogna aver manipolato il mio pensiero": i siti internet allestiscono un confronto fra le parole pronunciate la settimana scorsa e quelle di oggi. Contraddittorie, evidentemente, ma si sa che per Berlusconi vale sempre e solo l'ultima, pazienza se l'evidenza smentisce. Lo accompagnano Vito e Schifani, i capigruppo, Tremonti oggi molto pallido, Bonaiuti il portavoce storico. "Si deve votare", dice. Con questa legge? Ha cambiato idea? Qui un pochino s'impappina. Spiega che "aveva accettato il progetto di dialogo" ma che poi "l'ultima versione della riforma che portava le circoscrizioni elettorali da 60 a 32 non avrebbe evitato il frazionamento", aggiunge che comunque i sondaggi danno il "blocco liberale" in forte vantaggio e che insomma fatti i conti gli conviene: anche se vince così il centrodestra vince bene e poi del referendum se ne riparla fra un anno, magari non se ne riparla più.

Gli deve restare un retropensiero malmostoso sulla corrispondenza amorosa interrotta se sente il dovere di aggiungere che per lui "il dialogo comunque può anche continuare, io sono uno con cui è facilissimo dialogare: mi faccio concavo con chi è a punta e convesso con chi ha manchevolezze". Veltroni non si risenta: non è un fatto personale. Di seguito gli aneddoti sui ristoranti italiani a New York, la "vergogna dell'immondizia per le strade" e sembra già di vedere i manifesti della campagna prossima ventura, Prodi con i sacchi di immondizia alle spalle: "Pensate che per mantenere le prenotazioni nel suo locale il mio amico ha dovuto portare le signore a verificare le condizioni della cucina con la scusa di fare i complimenti ai cuochi". Che brutto momento, accidenti.

Veltroni un'ora dopo arriva lui pure coi capigruppo (Finocchiaro impavida in viola) e col vice Franceschini. Parla a braccio molto veloce e con foga. E' convincente, sembra già in comizio. "Precipitare verso le elezioni anticipate non corrisponde ai bisogni del Paese. Vogliamo un'altra campagna elettorale infuocata, un governo di 13 partiti, 36 gruppi parlamentari? Elezioni oggi significa instabilità domani". Propone due ipotesi, scandisce i percorsi: elezioni l'anno prossimo o fra tre mesi, nel frattempo però riforme in versione xl o xs. Lo sa anche lui che è tutto inutile, però che peccato. "Servono scelte coraggiose, anche unilaterali", parla di sé, del Partito democratico. "Ci vuole uno choc di innovazione". Uno choc, intanto. Per l'innovazione vedremo.

(30 gennaio 2008) - La Repubblica

Emilio Randacio si riprende alla grande il giallo di Erba.



Aiutato da un commento di Natalia Aspesi dal titolo "Nella gabbia amore e orrore",Emilio Randacio ridiventa prepotentemente il protagonista del giallo di Erba, andando a Como (stavolta la località è giusta)ad assistere alla prima giornata del processo contro i presunti assassini Rosa Bazzi e Olindo Romana, responsabili di aver sterminato la famiglia Castagna.

A Nairobi il risveglio del mitico Giampaolo Visetti.

Lui, che si vuole togliere l'etichetta di "quello di beslan", se ne va coraggiosamente a Nairobi a raccontare la tragedia incalzante in una città insanguinata dalle vendette.

Parliamo ovviamente di Giampaolo Visetti.

Appena recuperiamo il pezzo lo pubblichiamo.

martedì 29 gennaio 2008

Emilio Randacio torna sul luogo del delitto.



Precisamente a Erba, nel giorno dell'apertura del processo contro i coniugi Rosa e Olindo Romano.

Che però si tiene a Como...

Ezio Mauro applica il turnover: Flores D'Arcais inviato in Florida per le primarie.

Concetto di turnover applicato alla perfezione per quanto riguarda gli inviati americani al seguito delle primarie.

Oggi è il turno di Alberto Flores D'Arcais che vola a Fort Myers, Florida.

Minacce ai direttori dei giornali, proiettili a Mauro, De Bortoli e Mieli.

MILANO - Tre buste con proiettili sono state indirizzate a direttori di grandi giornali. Una è stata recapitata nella sede di Repubblica. Due, destinate a Corriere della Sera e Il Sole 24 Ore, sono state intercettate al centro poste italiane di Peschiera Borromeo.

Il plico indirizzato al direttore di Repubblica Ezio Mauro è arrivata tramite posta ordinaria intorno alle 10 di questa mattina ed è stata subito intercettata dalla vigilanza del quotidiano che l'ha fatta passare attraverso il metal detector. Sono quindi intervenuti i Carabinieri della Garbatella che hanno sequestrato la busta indirizzata al direttore senza però indicarne il nome. All'interno oltre al proiettile una lettera.

Le altre due, destinate al direttore del Corriere della Sera Paolo Mieli e a quello del Sole 24 Ore Ferruccio De Bortoli, sono state intercettata da un addetto delle Poste questa notte, alle 3 circa. Spedite entrambe da Lamezia Terme per posta prioritaria, misurano 13 centimetri per 17 e avevano gli indirizzi scritti al computer. Quella destinata a Mieli è stata aperta: dentro c'era un proiettile calibro 7.65 e un foglio con un messaggio definito dalla Questrua "abbastanza farneticante" che delineava uno scenario apocalittico in provincia di Crotone. La seconda busta non è stata aperta ma già al tatto gli esperti hanno detto che con ogni probabilità conteneva un proiettile dello stesso calibro. Sul caso indaga la Digos.

(29 gennaio 2008) - La Repubblica

Eugenio Scalfari ospite di Otto e Mezzo.



Stasera alle 8,30 su La7, il fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari sarà ospite del programma Otto e Mezzo, condotto da Giuliano Ferrara e Ritanna Armeni.

lunedì 28 gennaio 2008

Un blog utile che piacerà tanto ad Alberto Stabile.



Oggi abbiamo scoperto questo blog.

Ci sembrava giusto segnalarlo.

Lo famo Strano?



Strepitosa la "intervista senza rete" di Antonello Caporale a Nino Strano su Repubblica di un paio di giorni fa.

Nino Strano: adoro i locali gay ma non sono omosessuale
di ANTONELLO CAPORALE


Nino Strano mangia una fetta di mortadella in Senato
Nino Strano è catanese, senatore di An e molto altro ancora: "Esteta fottuto, amico di travestiti, troie e gay".

E' anche amico delle male parole.
"Vorrei essere lieve e soave, vorrei vivere la politica come una passeggiata su una spiaggia della Normandia".

Invece quando entra a palazzo Madama cade in trance.
"Il turpiloquio mi afferra, mi tira per un braccio. A me poi piace il turpiloquio".

Ci ricadrà.
"Temo di non sapervi resistere".

"Checca squallida", ha detto al collega Cusumano.
"Ponevo l'accento sull'aggettivo. Denunciavo lo squallore della sua posizione".

Checca invece stava per cosa?
"Non ci azzecca niente. E ho chiesto scusa a lui".

Le serviva comunque l'epiteto per segnalare all'aula la sua presenza.
"Avevo bisogno di urlare la mia contrarietà a quel bagno d'ipocrisia in cui il collega era immerso. Cusumano non credeva a una sola delle parole che pronunciava".

Ha anche guarnito la sua faccia di lembi di mortadella espulsi dalla bocca oramai incapiente. E tracannato spumante oltre a quello versato sullamoquette.
"Tutto il cinema di Almodovar si nutre della carne viva come scena fondante della propria rappresentazione creativa. In me c'era l'idea di sviluppare anche visivamente il senso della vittoria".

Non è un po' troppo cinematografico il suo senso delle Istituzioni?
"Ho scritto a Marini, naturalmente mi scuso. E devo dire che Prodi ieri ha fatto una bella figura. Evola diceva: a una cosa si badi! A tenersi in piedi in un mondo di rovina".

Senatore: i suoi gusti sessuali sono liberi e anticonformisti. E' credente ma ama i dannati dalla Chiesa. Anche il travestimento personale, le piume.
"Travestimento no".

I maschi.
"Mi squaglio davanti a una creatura di marmo. Ma non ho avuto mai un rapporto sessuale con una persona del mio stesso genere".

Frequenta soltanto.
"Frequento con enorme piacere i locali dove ogni desiderio è possibile e praticabile. Le mie donne sono sempre con me".

Frequenta ma non consuma.
"Mi fermo un attimo prima".

Costringe ad approfondire.
"Stamane ho fatto all'amore. Terminato alle 12,15".

Ah!
"Con una donna, la mia donna. Ho avuto un figlio da un'altra".

Zeffirelli le ha dedicato un grande suo film: Storia di una capinera.
"Zeffirelli è amico di famiglia, nutro immenso affetto, è uno dei più grandi, più grandi, più grandi. Ero assessore alla cultura a Catania, dove quel film è stato girato. Ho fatto di tutto per agevolargli il lavoro".

Per riassumere: lei è un praticante della perdizione.
"Vivo dannatamente di contraddizioni".

S'è chiesto cosa ci faccia in Alleanza Nazionale?
"Bella domanda".

(26 gennaio 2008) - La Repubblica

domenica 27 gennaio 2008

Vittorio per la vittoria di Obama.



Vittorio Zucconi, come già ampiamente annunciato, è l'unico inviato di Repubblica presente in South Carolina, dove ieri c'è stata la sessione democratica delle primarie americane. Mario Calabresi,Arturo Zampaglione e Alberto Flores D'Arcais hanno lasciato le armi al fabbro migliore.
E lui ci racconta tutta la vittoria schiacciante di Barack Obama contro Hillary Clinton su Repubblica di oggi.

Il domenicale di Eugenio Scalfari.

La rotta per salvare il paese dei naufragi
di EUGENIO SCALFARI

Il giorno in cui ha deciso di staccare la spina e mandare a casa il governo e forse la legislatura, Clemente Mastella ha recitato la poesia d'una poetessa brasiliana che concludeva con il verso "Lentamente muore" riferito ovviamente al destino politico di Romano Prodi. Una civetteria letteraria? Un modo elegante di annunciare il suo voto negativo da parte d'un personaggio nei cui comportamenti l'eleganza è piuttosto rara?

Direi soprattutto una citazione sbagliata. E' vero che l'esperienza politica del governo Prodi si è conclusa esattamente in quella seduta del Senato, non molto lentamente poiché la sua vita è stata abbastanza breve. Ma non è stata soltanto l'esistenza del governo Prodi a concludersi. E' terminato un ciclo e sono di colpo invecchiati tutti i protagonisti e i comprimari che lo hanno animato, quale che sia la loro età anagrafica e professionale. Tra di essi anche Mastella.

Traslocando al centrodestra forse avrà i collegi pattuiti con Berlusconi, ma non avrà più (per nostra fortuna di italiani) quei poteri di interdizione che il suo uno per cento gli dava in una maggioranza friabile e microscopica. Il Mastella degli ultimatum manterrà la signoria di Ceppaloni rientrando nel rango dei vassalli di paese dal quale era inopinatamente uscito in forza di una legge elettorale ("la porcata" votata dal centrodestra nello scorcio della scorsa legislatura) che ha reso il suo uno per cento essenziale come altrettanto essenziali sono diventati gli altri microscopici per cento dei Diliberto, dei Pecoraro, dei socialisti e perfino i voti individuali dei Dini, dei Turigliatto, dei De Gregorio.

La citazione giusta doveva dunque essere un'altra. Sta in "Allegria di naufragi" di Ungaretti e suona così: "Si sta come d'autunno/sugli alberi le foglie". Riguarda tutti, insigne Mastella, non soltanto Prodi.

Adesso si discute sulle vere cause della crisi. Giuliano Ferrara sostiene che sia il contrasto pluridecennale tra magistratura e classe politica; altri ne fanno carico alla nascita del Partito democratico; altri ancora al bombardamento mediatico o al cardinal Ruini e ai vescovi italiani o al fatto che il governo mancava di una missione, a differenza del Prodi del '96 che si propose di portare l'Italia nell'Eurolandia e ci riuscì.

La tesi di Ferrara non ha alcun riscontro probatorio: Prodi non cadde nel '98 per cause di giustizia, né il centrosinistra cadde nel 2001 per contrasti con la magistratura, né Berlusconi nel 2006. Il bombardamento mediatico c'è stato (e molto intenso) contro Prodi ma ci fu anche, sia pure assai più ridotto, contro il Berlusconi della precedente legislatura; comunque non basta a spiegare una crisi di queste proporzioni.

Quanto alla mancanza di una missione, che Angelo Panebianco gli imputa sul "Corriere della Sera" di ieri, si tratta di un argomento a mio avviso inesistente. La missione era duplice e fu dichiarata esplicitamente durante la campagna elettorale: risanamento dei conti pubblici, ereditati in pessime condizioni dal governo Berlusconi/Tremonti; rilancio della crescita economica e perequazione delle intollerabili disuguaglianze sociali in essere. Il primo punto è stato realizzato con la Finanziaria del 2007, il secondo aveva preso l'avvio con quella del 2008 e aveva già dato frutti importanti.
Restano le pretese responsabilità del Partito democratico, delle quali manca tuttavia qualunque traccia. Veltroni e il gruppo dirigente del Pd hanno concordato e appoggiato completamente l'azione del governo. Il dissenso c'è stato non con il governo ma con la maggioranza su un punto soltanto anche se essenziale: il rifiuto del frazionamento insopportabile dei partiti, dei veti, della rissa continua, delle estenuanti mediazioni, del rallentamento esasperante di ogni decisione, dell'immagine desolante che rimbalzava su un'opinione pubblica insicura, impaurita dalla globalizzazione, frustrata dalla Babele che i "media" non potevano non registrare e che la potenza mediatica berlusconiana esasperava con ogni mezzo.

Il Pd ha denunciato questo stato di cose e si è impegnato per quanto stava in lui di porvi riparo. Ha creato una nuova forma-partito basata sulle primarie. Ha annunciato che alle future elezioni si sarebbe presentato da solo e che le alleanze le avrebbe stipulate sulla base d'un programma semplice, abbandonando la prassi universalmente diffusa di programmi che hanno il solo scopo di metter d'accordo sulle parole ma non nella sostanza il diavolo con l'acqua santa.

Su questo punto, è vero, il Pd di Veltroni è stato netto. Sarebbe possibile rivedere sullo stesso palcoscenico affratellati per sole due ore Mastella, Pecoraro, Boselli, Giordano, Ferrero, Padoa-Schioppa, Dini, Diliberto? Sarebbe possibile, senza che quelle presenze e quelle persone fossero non solo fischiate ma disprezzate sia dalla destra sia dalla sinistra sia dall'antipolitica becera sia dagli italiani responsabili e maturi?

Questo ha detto il Partito democratico e su questo ha promesso di tener ferma la barra del suo timone. Speriamo che mantenga l'impegno. Se perderà, sarà con onore e potrà continuare la sua battaglia. Ma solo a queste condizioni potrà giocare la sua partita con molte speranze.

* * *

Dopo la sconfitta di Prodi al Senato Ezio Mauro ha scritto che questo governo è stato assai migliore di quanto apparisse, "ha razzolato bene e predicato male". Sono anch'io del suo stesso parere e cominciano a dirlo anche quelli che finora l'hanno avuto come bersaglio fisso sul quale sparare. L'ha biascicato a mezza bocca perfino Berlusconi, che è tutto dire.

Mi ha dato un senso di sincera tristezza assistere dagli schermi televisivi a quella seduta che non esito a definire drammatica, anzi tragica per la sguaiataggine da bordello in cui è precipitata l'aula del Senato al momento delle votazioni. Le aggressioni fisiche, la rissa, gli sputi, gli svenimenti e quello spregevole buffone che dai banchi missini, col pullover rosso annodato al collo, gli occhiali neri e una bottiglia di spumante in mano, lanciava sconcezze e innaffiava di spuma i banchi e i senatori che vi erano seduti. Ha fatto il giro del mondo quell'immagine.

Non so se e quando il Senato riaprirà le porte, ma a quel guitto da due soldi dovrebbe esser comminata dalla presidenza la sanzione massima. Quanto al suo partito, dovrebbe espellerlo su due piedi, ma sono certissimo che non lo farà. C'è una parte (non tutta per fortuna) della classe politica che si diverte e festeggia personaggi come Strano e come Cuffaro, "vasa-vasa", che festeggia con i cannoli una condanna a cinque anni di reclusione. Quella politica ha i Beppe Grillo che si merita. Purtroppo su questi lazzi e questa vergognosa giungla di clientele affonda lo Stato, ciò che ne resta.

* * *

Si dice da parte di alcuni che Prodi avrebbe forse fatto meglio a dimettersi senza formalizzare la sua sconfitta al Senato. Si attribuiscono analoghe riflessioni al Presidente della Repubblica ma senza un minimo di riscontri verificabili.

Credo invece (e ancora una volta sono con lui) che Prodi abbia fatto pienamente il suo dovere interpellando entrambi i rami del Parlamento. La sconfitta a Palazzo Madama era più che certa ma doveva essere certificata dal voto e il voto doveva avere la firma di chi lo dava. L'assunzione di responsabilità di chi votava il sì o il no.

Così è stato ed ora almeno questo punto è chiaro. L'ombra d'un eventuale reincarico avrebbe accresciuto tensioni e confusioni. Personalmente ho visto con amarezza la caduta di un uomo forte delle sue convinzioni che ha accettato il voto contrario con dignità repubblicana. Senza quel passaggio senatoriale, senza la sofferenza di quella sconfitta, le dimissioni date dopo la fiducia ottenuta alla Camera avrebbero avuto l'aria d'un sotterfugio. Così prevede la Costituzione e Prodi ad essa si è attenuto semplificando per quanto stava in lui il fardello pesantissimo che ora è sulle spalle del Capo dello Stato.

* * *

Il Presidente si è preso oggi una giornata di riflessione dopo aver iniziato le consultazioni che entreranno nel vivo domani e si concluderanno con l'incontro con i partiti maggiori dopodomani. Si parla anche di possibili incarichi esplorativi nel tentativo di convincere Berlusconi, Fini e Bossi all'idea di un governo "di scopo" che abbia il compito di varare la legge elettorale e gli altri adempimenti connessi e nel frattempo sia in grado di fronteggiare l'emergenza economica e finanziaria che sta scuotendo il pianeta.
Ho la sensazione che gli incarichi esplorativi abbiano poco senso. Non c'è niente di recondito da scoprire.

Quanto alla "moral suasion" nessuno ha maggior titolo per usarla del Capo dello Stato. Ci si domanda quante divisioni (nel senso militaresco del termine) abbia a sua disposizione il Presidente della Repubblica, di quali strumenti operativi disponga per realizzare quello che è il suo dichiarato convincimento: andare al voto dopo aver cambiato il sistema elettorale e non prima. E a questa domanda la risposta è pressoché unanime: pochissime divisioni, pochissimi strumenti, forse soltanto l'opera di convincimento da esercitare su chi non è del suo stesso parere.

Ebbene, uno strumento il Presidente ce l'ha, deriva direttamente dal dettato costituzionale ed ha anche a suo sostegno qualche importante precedente. La Costituzione prevede che il Presidente, in presenza d'una crisi di governo, "dopo avere ascoltato le opinioni dei presidenti delle Camere, nomina il presidente del Consiglio dei ministri e su sua proposta i ministri. Il governo, dopo aver prestato giuramento, si presenta entro quindici giorni alle Camere per ottenerne la fiducia".

Fin qui la Costituzione. Tutte le altre formalità sono state introdotte dalla prassi ma non sono scritte negli articoli della Carta. Nulla vieta, anzi così è prescritto, che mercoledì o quando egli decida, il Presidente convochi la persona da lui scelta e la nomini senza altri indugi alla guida del governo e che entro poche ore riceva dal nominato i nomi dei ministri. Firmati i decreti, i ministri giurano e il governo entra nel pieno possesso dei suoi poteri in attesa di ricevere la fiducia dalle due assemblee parlamentari.

Due settimane dopo vi sarà il voto di fiducia. Se sarà positivo il governo avrà adempiuto a tutte le condizioni previste, se sarà negativo il governo si dimetterà e il Capo dello Stato avrà motivo di sciogliere il Parlamento.

Quali vantaggi possono venire da questa correttissima procedura? Non sarebbe il governo presieduto da Prodi ad "accompagnare" le elezioni, ma un nuovo governo istituzionale. Berlusconi e Fini preferiscono avere Prodi ancora in carica per poter scaricare pugni a volontà su un "punching ball" che non ha titolo né mezzi per rispondere. I pugni sferrati su Prodi colpirebbero inevitabilmente il Partito democratico che anziché presentarsi come l'unica novità in campo verrebbe incastrato sotto il patronimico prodiano.

L'arrivo in campo d'un governo composto interamente da personalità indipendenti e tecnicamente competenti metterebbe il Parlamento nelle condizioni migliori per votare o negare la fiducia, senza doversi far carico di proporre questa o quella soluzione. Al governo del Presidente i partiti e i singoli parlamentari debbono solo rispondere sì, no, astenuto, o disertare la riunione.
Nessuna forza politica rinuncerebbe a nulla. La conta non si fa in piazza ma in Parlamento dove ognuno risponde di sé "senza vincolo di mandato".

* * *

Conosco la possibile obiezione: se attorno ad un simile governo si formasse una inedita maggioranza, saremmo in presenza di un ribaltone. Obiezione che non ha alcun sostegno. Infatti il ribaltone, o cambiamento di maggioranza, non è previsto né vietato in nessun articolo della nostra Costituzione ed è in palese contrasto con la libertà del singolo parlamentare di comportarsi come meglio ritiene nell'interesse del paese.

Del resto di ribaltoni e ribaltini è piena la storia della nostra Repubblica parlamentare. Il governo berlusconiano del '94 esordì con il ribaltino di Tremonti che passò dal centro al centrodestra a pochi giorni di distanza dalla sua elezione. Pochi mesi dopo fu la Lega a lasciare l'alleanza di centrodestra determinando la crisi e la nascita del governo Dini. Nel '98, caduto Prodi, D'Alema incassò i voti di Mastella rimpiazzando con lui quelli perduti di Rifondazione. Adesso è Mastella che abbandona la coalizione in cui è stato eletto e passa dall'altra parte. Chi vituperava i ribaltoni applaude oggi i ribaltati. Perciò questo tipo di obiezione non ha senso alcuno con la legislazione vigente.

Per quanto riguarda i precedenti governi istituzionali, ne ricordo i tre più clamorosi: quello di Pella del 1953, nominato dal presidente della Repubblica Luigi Einaudi senza che il suo nome fosse stato indicato da alcun gruppo parlamentare e meno che mai dalla Dc; quello del sesto governo Fanfani, nominato da Cossiga nell'aprile del 1987, sfiduciato dalle Camere e in particolare dal suo partito, che portò alle elezioni anticipate nel giugno dello stesso anno. Infine il governo Dini del '95, nominato da Scalfaro, che trovò in Parlamento il consenso del centrosinistra e della Lega.

Una procedura del genere ha dunque dalla sua cospicui precedenti oltre che le norme della Costituzione. Aggiungo per quel che vale - e vale molto - che anche ha dalla sua l'appoggio di tutte le parti sociali, dai sindacati ai commercianti e alla Confindustria. Cioè dall'insieme del paese che produce, lavora e consuma. Forse quel paese non ama i politici, ma sa che della politica nessuna società può fare a meno, salvo i paesi (e i paesetti) tribali.


(27 gennaio 2008) - La Repubblica

Alberto Stabile fa il furbo: preso il "paiolo d'oro" se ne torna a Gerusalemme.

Non abbiamo fatto in tempo a premiarlo con il "paiolo d'oro" e lui, Alberto Stabile, se ne torna bello bello a Gerusalemme.

Bel ringraziamento.

Corrado l'africano manda cartoline da Sekondi.



Qualcuno doveva pur andarci in Ghana a seguire la Coppa d'Africa che, a detta di molti esperti, è il torneo più bello del mondo. Se è così, ce lo dirà il nostro inviato Corrado Zunino, che manda cartoline da Sekondi(foto), terza città ghanese per numero di abitanti.

Nella foto: la cartolina che Corrado Zunino ci ha mandato da Sekondi.

Crosetti e le due regine che iniziano per kappa.

Affidato alla penna di Maurizio Crosetti il commento (già in prima pagina) della doppia affermazione delle italiane Carolina Kostner e Denise Karbon rispettivamente negli europei di pattinaggio e nel mondiale di sci.

sabato 26 gennaio 2008

Terzo giorno per Alberto Stabile a Rafah: il paiolo d'oro è suo.



Alberto Stabile è per il terzo giorno consecutivo a Rafah a saltellare in continuazione tra Striscia di Gaza ed Egitto.

I suoi pezzi sono efficenti, anche se quelli della sua collega Alessandra Coppola del Corriere sono più interessanti dei suoi.

Ciò non toglie che Alberto si aggiudichi il "paiolo d'oro" di Repubblica per essersi fatto un culo così a raccontarci cosa sta succedendo in quella zona martoriata.

Vottorio nel poese delle promarie.

Clamoroso refuso su Repubblica di oggi in apertura del pezzo di Zucconi da Charleston (South Carolina).

C'è scritto:

dal nostro inviato
VOTTORIO ZUCCONI

Almeno le intestazioni dei pezzi dovrebbero essere rilette da qualcuno.

Quindi complimenti al grafico (o chi per esso).

venerdì 25 gennaio 2008



Prodi battuto al Senato. Ezio Mauro cerca di ricomporre i pezzi con un fondo in prima pagina.Eccolo:

Così muore il centrosinistra
di EZIO MAURO

Nemmeno due anni dopo il voto che ha sconfitto Berlusconi e la sua destra, Romano Prodi deve lasciare Palazzo Chigi e uscire di scena, con il suo governo che si arrende infine al Senato dove Dini e Mastella gli votano contro, dopo una settimana d'agonia. È lo strano - e ingiusto - destino di un uomo politico che per due volte ha battuto Berlusconi, per due volte ha risanato i conti pubblici e per due volte ha dovuto interrompere a metà la sua avventura di governo per lo sfascio della maggioranza che lo aveva scelto come leader.

Con Prodi, però, oggi non finisce soltanto una leadership e un governo, ma una cultura politica - il centrosinistra - che tra alti e bassi ha attraversato gli anni più importanti del nostro Paese, segnando la storia repubblicana.

Ciò che è finito davvero, infatti, è l'idea di un'ampia coalizione che raggruppi insieme tutto ciò che è alternativo alla destra, comunque assemblato, e dovunque porti la risultante. Prodi è morto politicamente proprio di questo. È morto a destra, per la vendetta di Mastella e gli interessi di Dini, ma per due anni ha sofferto a sinistra, per gli scarti di Diliberto, Giordano e Pecoraro, soprattutto sulla politica estera. Mentre faceva firmare ai leader alleati un programma faraonico e velleitario di 281 pagine e un impegno di lealtà perfettamente inutile per l'intera legislatura, Prodi coltivava in realtà un'ambizione culturale, prima ancora che politica: quella di tenere insieme le due sinistre italiane (la riformista e la radicale), obbligandole a coniugare giustizia e solidarietà insieme con modernità e innovazione, in un patto con i moderati antiberlusconiani.

Quell'ambizione è saltata, o meglio si è tradotta talvolta in politica durante questi due anni, mai in una cultura di governo riconosciuta e riconoscibile.

I risultati positivi di un governo che ha rovesciato il proverbio, razzolando bene mentre continuava a predicare male, non sono riusciti a fare massa, a orientare un'opinione pubblica ostile per paura delle tasse, spaventata dalle risse interne alla maggioranza, disorientata dalla mancanza di un disegno comune capace di indicare una prospettiva, un paesaggio collettivo, una ragione pubblica per ritrovare il senso di comunità, muoversi insieme, condividere un percorso politico.

Anche le cose migliori che il governo ha fatto, sono state spezzettate, spolpate e azzannate dal famelico gioco d'interdizione dei partiti, incapaci di far coalizione, di sentirsi maggioranza, di indicare un'Italia diversa dopo i cinque anni berlusconiani: ai cittadini, le politiche di centrosinistra sono arrivate ogni volta svalutate, incerte, contraddittorie e soprattutto depotenziate, come se la rissa interna - che è il risultato di una mancanza di cultura comune - avesse succhiato ogni linfa. Ancor più, avesse succhiato via il senso, il significato delle cose.

Fuori dal recinto tortuoso del governo, la destra non ha fatto molto per riconquistarsi il diritto di governare. Le sue contraddizioni sono tutte aperte, e la crisi della sinistra regala a Berlusconi una leadership interna che i suoi alleati ancora ieri contestavano. Ma la destra, questo è il paradosso al ribasso del 2008, è in qualche modo sintonica e addirittura interprete del sentimento italiano dominante, che è insieme di protesta e di esclusione, forse di secessione individuale dallo Stato, probabilmente di delusione repubblicana, certamente di solitudine civica. Nella grande disconnessione da ogni discorso pubblico, che è la cifra nazionale di questa fase, il nuovo populismo berlusconiano può trovare terreno propizio, perché salta tutte le mediazioni, dà agli individui l'impressione di essere cercati dalla politica e non per una rappresentanza, ma per una sintonia separata con la leadership, una vibrazione, un'adesione, ad uno ad uno.

Intorno si è mossa e si muove la gerarchia cattolica, che ormai lascia un'impronta visibile non nel discorso pubblico dov'è la benvenuta, ma sul terreno politico, istituzionale e addirittura parlamentare, dove in una democrazia occidentale dovrebbe valere solo la legge dello Stato e la regola di maggioranza, che è la forma di decisione della democrazia. Un'impronta che sempre più, purtroppo, è quella di un Dio italiano fino ad oggi sconosciuto, che non si preoccupa di parlare all'intero Paese ma conta le sue pecore ad ogni occasione interpretando il confronto come prova di forza - dunque come atto politico - , le rinchiude nel recinto della precettistica e se deve marchiarle, lo fa sul fianco destro.

Un contesto nel quale poteva reggere soltanto una politica in grado di esprimere una cultura moderna, cosciente di sé, risolta, capace di nascere a sinistra e parlare all'intero Paese. Tutto questo è mancato, per ragioni evidenti. La vittoria mutilata del 2006 ha messo subito il governo sulla difensiva, preoccupato di munirsi all'interno, col risultato di una dilatazione abnorme di ministri e sottosegretari. Ma i partiti, mentre si munivano l'uno contro l'altro, si disconnettevano dal Paese. Nel loro mondo chiuso, hanno camminato a passo di veti, minacce e ricatti, indebolendo la figura dello stesso Presidente del Consiglio, costretto a mediare più che a indirizzare. Si sono sentite ogni giorno mille voci, a nome del governo. La voce del centrosinistra è mancata.

Oggi che Mastella ha firmato un contratto con il Cavaliere e Dini ha onorato la cambiale natalizia, risulta evidente che Prodi salta perché è saltato quell'equilibrio che univa i moderati alle due sinistre, e come tale poteva rappresentare la maggioranza dell'Italia contemporanea. Tuttavia, senza il trasformismo (non nuovo: sia Dini che Mastella sono ritornati infine a casa) Prodi non sarebbe caduto. Barcollando, il governo avrebbe ancora potuto andare avanti, e questa è la ragione che ha spinto il premier ad andare al Senato, per mettere in piena luce sia la doppia defezione da destra e verso destra, sia l'assurdità di una legge elettorale che dà allo stesso governo la vittoria alla Camera e la sconfitta al Senato.

Da qui partirà il presidente Napolitano con le consultazioni, nella sua ricerca di consolidare un equilibrio politico e istituzionale che ritrovi un baricentro al sistema e al Paese. Il Capo dello Stato dovrà dunque tentare, col suo buonsenso repubblicano, di correggere queste legge elettorale prima di riportare il Paese al voto. La strada è quella di un governo istituzionale guidato dal presidente del Senato Marini, formato da poche personalità scelte fuori dai partiti, sostenuto dalle forze di buona volontà per giungere al risultato che serve al Paese.

Riformare la legge elettorale, e se fosse possibile, riformare anche Camera e Senato, cambiando i regolamenti, riducendo il numero dei parlamentari, correggendo il bicameralismo perfetto. Un governo non a termine, ma di scopo.

Che può durare poco, se i partiti sono sinceri nell'impegno e responsabili nelle scelte, col Capo dello Stato garante del percorso e dell'approdo.
Berlusconi è contrario a questa soluzione perché vuole votare al più presto, con i rifiuti per strada a Napoli (altra prova tragica d'impotenza del centrosinistra, locale e nazionale), con piazza San Pietro ancora calda di bandiere papiste, con il volto di Prodi da esibire in campagna elettorale come un avversario già battuto, in più in grado di imbrigliare l'avversario vero, che è da oggi Walter Veltroni.

(25 gennaio 2008)

Prodi ci lascia. Tocca a Massimo Giannini scrivere il necrologio.



Molti meriti, molti errori
di MASSIMO GIANNINI

Stavolta è finita sul serio. Il "guerriero", come l'ha orgogliosamente ribattezzato Diliberto, si è arreso. Triste destino, quello di Romano Prodi. L'unico leader politico di centrosinistra che riesce a vincere contro Silvio Berlusconi per ben due volte, ma per una ragione o per l'altra non riesce a governare per più di 600 giorni. Il Professore ha combattuto fino all'ultimo, ridando uno straccio di orgoglio e un briciolo di dignità a quel pezzo di coalizione che l'ha sostenuto fino all'ultimo. Ma al Senato, il suo vero Vietnam, nulla ha potuto contro il "fuoco amico" dei proto-comunisti alla Turigliatto, dei soliti trasformisti alla Mastella, degli pseudo liberisti alla Dini.

Romano si è fermato a Ceppaloni. Si compie così il destino di un governo che ha finito per pagare un prezzo di immagine e di credibilità molto più alto dei suoi effettivi demeriti. Il risanamento dei conti pubblici in appena un anno e mezzo è un risultato vero, che già di per sé basterebbe a considerare tutt'altro che inutile la pur breve e rissosa stagione del "prodismo da combattimento".

Certo, Prodi ha commesso molti errori. Se dopo il voto della primavera 2006 avesse accettato l'idea di non aver stravinto una tornata elettorale sostanzialmente pareggiata, e avesse lasciato all'opposizione la presidenza di almeno un ramo del Parlamento, oggi forse racconteremmo un'altra storia. Se avesse saputo mettere in riga giganti e nanetti dell'Unione in conflitto permanente effettivo con la stessa grinta sfoderato in questi ultimi tre giorni di crisi, oggi forse non sarebbe caduto per mano dei suoi stessi alleati.

Se avesse compreso fino in fondo la strumentale irriducibilità della scelta ribaltonista consumata dalle truppe mastellate e dal manipolo diniano, oggi forse ci avrebbe risparmiato lo spettacolo, indecente per gli eletti e umiliante per gli elettori, di un Palazzo Madama trasformato in osteria, tra insulti, sputi e bocce di spumante.

Ma l'uomo è così. Alla fine ha prevalso la linea del "meglio perdere che perdersi". Meglio affrontare la sconfitta a viso aperto, offrendo in pasto al Paese il nome e il cognome dei congiurati che uccidono il governo, e degli sciagurati che hanno reso ingovernabile l'Italia, architettando alla fine della scorsa legislatura una riforma elettorale vergognosa che proprio ieri ha prodotto l'ultimo, insostenibile corto-circuito: la fiducia alla Camera, la sfiducia al Senato. Ora che il ciclo di Prodi è finito, quello che comincia è un'avventura in una terra incognita. È quella che Giulio Tremonti definisce la "crisi perfetta", quella dove nessuno controlla niente, e nessuno capisce come se ne possa uscire.

Sul terreno politico-istituzionale restano solo macerie. Per il Professore un reincarico è impensabile. Per un governo tecnico-istituzionale alla Marini i margini sono strettissimi. Per il centrosinistra non si vedono sbocchi unitari: la Cosa Rossa di Bertinotti e company riconquista l'allegra e irresponsabile adolescenza del non-governo e delle mani libere, il Pd di Veltroni sostiene il costo più alto precipitando nel baratro del governo, e rischiando di veder trasformata la sua legittima "vocazione maggioritaria" in una traversata nel deserto incerta e solitaria.

Per il centrodestra, in mille pezzi solo fino a due settimane fa, quando le mura della Casa delle libertà erano crollate sotto i colpi di piccone della "rivoluzione del predellino" del Cavaliere, si rivede invece un orizzonte unitario. E soprattutto si riapre la strada per Palazzo Chigi. Sarà difficile se non impossibile, perfino per il presidente Napolitano, fermare la "macchina da guerra" berlusconiana, che l'uomo di Arcore vuole lanciata a folle corsa verso il voto anticipato. Con tanti saluti alla crisi dei salari, al tracollo dei mercati, al referendum di Segni e Guzzetta. Sta per cominciare, temiamo, tutto un altro film. Berlusconi Tre. La vendetta. O l'eterno ritorno. Con la stessa legge elettorale, la "porcata" di Calderoli, che ha massacrato il sistema repubblicano. Con un'altra armata Brancaleone, che andrà dal neo-fascista Tilgher al catto-populista Mastella, incrociando l'eversore padano Bossi e forse lo stesso "traditore" toscano Dini. Con l'ennesima accozzaglia di mezzi partitoni e di micro-partitini che, per garantirsi la sopravvivenza, non esistano a tenere in ostaggio un'intera nazione. Povera Italia. Meritava di più.

(24 gennaio 2008)- La Repubblica

giovedì 24 gennaio 2008

Caro Alberto Stabile, hai voluto andare a Gaza a curiosare? Adesso pedali! (Fino a Rafah).



Alberto Stabile qualche giorno fa aveva deciso di andare a farsi una giratina a Gaza per curiosare su come potesse tirare avanti al buio il popolo palestinese. Ma una volta lì e pensando di tornare presto a Gerusalemme, è stato a sua insaputa coinvolto nella caduta del muro di Rafah (foto) grazie al quale migliaia e migliaia di palestinesi stanno scappando in Egitto. Quindi oggi altro reportage di Alberto. Da Rafah, ovviamente. E appena lo troviamo in rete lo pubblichiamo.

Fine dell'Impero Romano? Intanto leggiamoci la dolce Concita.


Il giorno più lungo degli amici-nemici
di CONCITA DE GREGORIO

E' la giornata dei risentimenti. Personali prima che politici o tutte e due le cose insieme che ormai è lo stesso in una crisi di governo originata da una questione di famiglia.

Mastella, sua moglie incriminata, la vita politica che salta per aria per "amor coniugale", per così dire. Risentimenti antichi e recenti, fra amici e fra nemici: il più vistoso di tutti oggi è quello fra Prodi e Veltroni, seguono quello di Dini verso gli alleati ingrati, quello di Diliberto inascoltato, Fisichella sottovalutato, Casini troppo a lungo isolato. Il più risentito di tutti è Mastella, ovviamente: Mastella devoto al Papa a Bagnasco, ora che pareva che il signore di Ceppaloni tornasse nella casa a centrodestra Berlusconi e Casini se lo rimpallano come un invitato inatteso: prendilo tu, no grazie tu. C'è da innervosirsi, effettivamente.

Se stentate a seguire, se non riuscite a capire quel che sta succedendo nelle nebbie dei Palazzi state sereni, per una volta: siete in numerosa se non buona compagnia. Alle nove di sera, ieri sera, nemmeno i ministri lo sapevano. Mussi, Fioroni, Bindi, il vice di Padoa Schioppa Vincenzo Visco interrogati dai cronisti sul senso della giornata e sulle intenzioni di Prodi allargavano le braccia dando ciascuno una risposta diversa: Prodi agirà secondo coscienza, no secondo convenienza, no secondo le indicazioni di Napolitano il Presidente. Santagata, il più prodiano dei ministri, si domandava "che convenienza avrebbe il presidente a dimettersi dopo aver incassato 51 voti di maggioranza alla Camera: per dare soddisfazione a chi?". A Veltroni, forse? A chi vuole sostituirlo? Ecco: a chi conviene?

Bisogna allora ripartire dalla cronaca di una giornata infinita che comincia con Napolitano e con Napolitano finisce. Isolare qualche fotogramma: vediamo. La mattina il capo dello Stato celebra a Montecitorio i 60 anni della Costituzione. Seduta solenne, aula imbandierata. Ci sono tutti: Giulio Andreotti ed Emilio Colombo col bastone, Scalfaro Ciampi e Cossiga, Rita Levi Montalcini accolta in aula da un applauso. Le mogli dei presidenti Napolitano Marini e Bertinotti nel palco sopra i mariti. Veltroni in quello di fronte, fra le autorità ospiti. Il discorso è solenne come si conviene all'occasione. La settima parola è "crisi", la sesta "acuta". Il paese vive un momento di "acuta crisi" e "incertezza politica". Berlusconi sui banchi invia un messaggio col telefonino, Giuliano Amato candidato (con Marini) a guidare il governo istituzionale eventualmente prossimo venturo lo guarda in viso, unico dei ministri voltato verso di lui. Napolitano dice che bisogna fare le riforme, farle con un "concorso di volontà" fuori "dallo spirito di parte". I governi e le alleanze passano, la Costituzione resta. Applausi, compostezza e condivisione come a Montecitorio non si vede mai. Scena seconda: al Quirinale, all'ora di pranzo, sale Prodi. Napolitano invita il presidente del Consiglio a dimettersi prima di essere sfiduciato al Senato, riferisce chi è informato del colloquio. Prodi risponde che vuole prima vedere cosa succede alla Camera. Scena terza, la Camera. Finirà con 51 voti a favore del governo, inizia con le dichiarazioni di voto.
Per l'Udeur di Mastella parla Antonio Satta.

Contrariamente all'annuncio della vigilia non chiede la sfiducia né annuncia voto contrario: i deputati assenteranno, annuncia. E' molto diverso: non è un no. Il discorso di Satta è pieno di omaggi al Papa e al Vaticano, dice che "la linea moderata dell'Udeur è stata mortificata dagli alleati", fa lui per primo riferimento a Veltroni e all'ormai celebre discorso di Orvieto in cui il leader Pd ha annunciato che alle prossime elezioni correrà da solo, senza i "piccoli". Prodi prende appunti. Seguono, in diretta tv così che gli italiani sappiano, altri cinque interventi che indicano in Veltroni il responsabile della decisione di Mastella di uscire dal governo: Diliberto, esplicito. Maroni: i suoi inalberano ad uso dei fotografi la Padania che dice "Elezioni". Casini ("il segno del fallimento del suo governo l'ha dato Veltroni"), Fini. Il clima è tale che Soru capogruppo dell'Unione è costretto a dire che "non ci sono agenzie di stampa" che confermino che il Pd sia contrario all'alleanza di governo. Ilarità fra i banchi di centrodestra.

Quando parte il voto per chiamata nominale in Transatlantico è già in fase avanzata la conta (il mercato) dei voti per l'indomani al Senato. Bordon voterà sì, Pallaro l'argentino non viene. Fisichella vota no ("Forse memore del suo passato", commenta Fini). La Svp sì ma resta "fuori dai blocchi". Andreotti dice che Prodi ce la farà (vota sì) e così pure Cossiga, che attribuisce il possibile successo a "un virus di walterveltronite" tra i banchi di Forza Italia. Dini vota no anche perché spera che un possibile incarico nel nuovo governo tocchi a lui. Il diniano D'Amico dice sì, invece. Conta e riconta i voti non è certo che ci siano, anzi. D'Alema oggi non sarà in aula col governo, va ai funerali di Boldrini a pronunciare l'orazione funebre. Gli uomini di Fassino riassumono: la maggioranza al Senato è quanto mai incerta meglio sarebbe se Prodi rinunciasse alla prova in aula e si dimettesse prima. Nessuno lo dice, tutti lo mormorano. Fioroni il ministro commenta che "con una maggioranza di 51 voti alla Camera è difficile dimettersi", Prodi che convenienza avrebbe, a questo punto meglio giocarsi il tutto per tutto. Bindi osserva che "sarebbe uno sgarbo per il Senato non sottoporsi al voto".

I prodiani vogliono andare fino in fondo. Bossi dice che Prodi "ha chiesto il voto a Maroni e Calderoli", non è credibile, tutt'al più l'ha chiesto, e ad alta voce, a Bruno Tabacci che allargando le braccia gli ha risposto di no. Casini aspetta di capire quale legge elettorale sia eventualmente proposta: se una che conviene all'Udc o meno. Gianni Letta, come sempre, si incarica delle trattative riservate: un governo Prodi per fare le riforme e voto a giugno. Il presidente del Consiglio si prende la notte per averne consiglio. Sarà stamattina da Napolitano, di nuovo: un passaggio al Colle prima di andare in aula coi conti aggiornati al minuto. Berlusconi gongola. Se non fosse per la madre così malata (domani il compleanno, 97) sarebbe davvero un giorno di gloria.

Concita De Gregorio - La Repubblica

mercoledì 23 gennaio 2008

La delusione di una lettrice romana di Repubblica.

Riceviamo da una lettrice anonima e volentieri pubblichiamo.

Caro feticista di Repubblica, tu hai la fortuna di abitare a Milano e lì non arriva la Cronaca di Roma. Che ti assicuro è la peggiore. Illeggibile, un aborto. Problemi della città nessuno, cronaca nera zero (come nel fascismo). Per quanto riguarda la mancata visita del Papa alla Sapienza, Roma era blindata ma nè Giuseppe Cerasa nè chi sta sopra di lui sembravano essersene accorti...chiedere a Veltroni che senso aveva blindare a quel modo l'Università sottraendo le forze dell'ordine ad altre mansioni era troppo? Forse Repubblica sta perdendo faccia e coraggio negli ultimi tempi...nella cronaca di Roma soprattutto. Che delusione per una lettrice che anche per le notizie locali sceglieva (e preferiva) Repubblica.

L'inviato Alberto Stabile ci illumina sul buio di Gaza.



Prova di coraggio del corrispondente da Gerusalemme Alberto Stabile che prende armi, bagagli e candele e va a Gaza a raccontarci la vita dei palestinesi della striscia più famosa del mondo (dopo i Peanuts) strozzata dall'embargo deciso da Gerusalemme.

NEL DESERTO DI GAZA, CITTA' ASSEDIATA.

dal nostro inviato ALBERTO STABILE

GAZA - Le acque nere delle fogne sono tracimate sulle strade della città assediata. Bambini e adulti devono
farsi strada a piccoli passi in un mare di escrementi. È bastato un giorno di black-out perché si formasse una fetida palude ad insidiare le case di Zeitun, lo stesso quartiere in cui la scorsa settimana sono stati uccisi 14 miliziani di Hamas in una sola notte.

Per risospingere indietro la colata, il direttore dell'acquedotto costiero, l'ingegnere Monther Shoblak, ha dovuto fare il gioco delle tre carte spostando il poco carburante rimasto da una pompa all'altra, delle 37 ancora funzionanti su un totale di 132, riuscendo così ad evitare l'inondazione e la probabile epidemia. Ma non ha potuto impedire che trentamila tonnellate di liquami non trattati venissero scaricati direttamente a mare.
Situazioni come questa per i prossimi giorni dovrebbero essere scongiurate. Ai cancelli della Centrale elettrica di Nusseirat, costruita nel 2000 con la partecipazione della bancarottiera Enron e la benedizione della Casa Bianca, vediamo arrivare di buon mattino la prima autobotte di carburante con le insegne dell'Unione europea, che paga anche questa bolletta. La centrale venne bombardata nel giugno del 2006, dopo il sequestro del soldato Gilad Shalit da parte di Hamas, e i suoi sei trasformatori vennero distrutti. E tuttavia resta un bell'impianto, un'isola di decoro e di efficienza, anche se, stando lì ai cancelli, ho l'impressione che l'autobotte che fa la spola con il terminale di Karni, per portare il combustibile sia sempre la stessa.
La buona notizie per gli abitanti di Gaza è, infatti, che il ministro della Difesa, Ehud Barak, ha autorizzato l'invio di 700 tonnellate di carburante sufficiente a far funzionare le due turbine della centrale per un paio di giorni. Domani e dopo ne dovrebbe arrivare dell'altro per un totale di duemila tonnellate e mezzo, in pratica, il fabbisogno di una settimana. Ma il manager dell'impianto, Mohammed Shariff, formatosi all'ombra di grandi compagnie petrolifere in Libia e nel Golfo, ostenta uno scetticismo che lui definisce "frutto dell'esperienza": "Ci crederò soltanto quando lo vedrò con i miei occhi".
Shariff, un sessantenne dalla barba ben coltivata, avvolto in un cappotto doppiopetto, una rarità da queste parti, sembra un uomo tranquillo. Interpreta il suo lavoro come "una missione" e parla della corrente elettrica come di un diritto naturale, "come l'acqua che beviamo e l'aria che respiriamo". Ripete che la centrale è una zona sottratta all'influenza della politica, in parole povere: né con Hamas né con Fatah. Una compagnia privata, e basta. Ma cosa risponde a commentatori israeliani che l'hanno accusato d'aver esagerato gli effetti dell'embargo, decidendo arbitrariamente di spegnere la centrale?
"Dico che non avevamo più neanche una goccia di carburante, a meno di non gettare nelle turbine residui pericolosissimi e mandare tutto all'aria. Il rappresentante dell'Unione Europea è venuto a verificare di persona. Lo stesso ha fatto il rappresentante delle Nazioni Unite. Qui tutti sono benvenuti, anche gli israeliani, se volessero farci l'onore. A parte il fatto che ci sono i media e anche i satelliti".
Una scialba, inanimata tregua scenderà, dunque, sul popolo degli assediati. La luce tornerà nelle case. I panifici torneranno a lavorare. I responsabili dell'Ospedale Shifa non saranno costretti a scegliere se continuare le dialisi o far funzionare le incubatrici. E questo sarà tenuto nel debito conto al Palazzo di Vetro, dove il Consiglio di sicurezza dell'Onu, su iniziativa dei paesi arabi, dovrà pronunciarsi.
Ma le concessioni israeliane non riguardano né il gasolio, né la benzina. E bastava percorrere le strade di Gaza, ieri, per vedere una città ridotta alla paralisi. Le macchine saranno pure inquinanti, fastidiose e troppo dominanti sulle nostre vite. Ma cos'è una città di cinquecentomila abitanti senza ombra di traffico per le strade? Le stazioni di servizio chiuse, i meccanici seduti a gambe incrociate fuori dalle officine?
La città e la Striscia, poi, sono ormai diventate quasi un unico agglomerato, una sola entità spaziale chiusa in cui si muovono come animali in gabbia un milione e quattrocentomila persone senza alcuna possibilità di uscire. Da giorni migliaia di donne premono alla frontiera di Rafah, con l'Egitto. Alcune accompagnano malati bisognosi di cure. Niente, la frontiera resta chiusa. Tensione. Incidenti con i poliziotti egiziani. Risultato: una cinquantina di feriti soprattutto a causa del calpestio.
Per gli abitanti della Striscia, Gaza era un tempo non solo la capitale, ma anche la risorsa estrema dove c'è, o dovrebbe esserci, tutto quello che è essenziale per sopravvivere. Dal suk all'ospedale, dal mercato degli asini (il venerdì) a quello delle auto usate (il martedì). Oggi è soltanto il luogo della questua e del mercato nero con la farina che in pochi giorni è passata da 140 shekels a sacco (50 chili) a 170 shekels, da 40 a 45 dollari.
Come in una scena da film del dopoguerra, lungo il vialone di Jabalia, nella luce livida della mattinata piovosa, ecco una macchina che avanza schiacciata da nove sacchi di farina ammonticchiati sul tettuccio. Mustafà Mugat l'uomo alla guida viene da uno degli uffici dell'Unrwa che sfamano gratuitamente oltre 800 mila persone. "Questo - dice indicando il castello di sacchi - è quanto basta a cinque famiglie per una ventina di giorni. Facciamo il fuoco con la legna per riscaldarci e per cucinare. Le donne fanno il pane per noi e per i vicini che hanno bisogno".
Cinquant'anni, disoccupato, "nessuno lavora più a Gaza", dice Mustafà che fino allo scoppio della seconda Intifada, nel 2000, lavorava in Israele con piccoli subappalti. Una lontana, irripetibile età dell'oro: "Riuscivo a guadagnare cento dollari al giorno, avevo due automobili, mentre ora sono costretto a elemosinare un sacco di farina".
A ricordare che tutto questo fa parte di una guerra in corso, qualche centinaio di metri più in là, un altoparlante nascosto chissà dove, ma probabilmente, quello di un minareto, manda ordini secchi alla popolazione. "I civili sono invitati a lasciare le strade e ad andare a casa. Gli aerei israeliani stanno per bombardare". Naturalmente non succede ma, mi spiega un amico che questo è un capitolo della guerra dei nervi, oltre a quella con i Qassam (ieri ne sono sparati oltre venti sul Negev) che Hamas combatte contro Israele. L'esercito israeliano spesso, prima di colpire, invita gli abitanti di un certo caseggiato ad uscire per evitare che facciano da scudi umani a certi "terroristi". La security di Hamas, al contrario, invita la gente a entrare in casa per proteggere chissà quale obiettivo.

(23 gennaio 2008) - La Repubblica

martedì 22 gennaio 2008

Crisi di governo: ci vuole un Prodigio.



Solo un Prodigio può salvare il governo dalle elezioni anticipate.

Ma cosa è successo veramente?

Ce lo ha spiegato perfettamente oggi su Repubblica Massimo Giannini.

Il Paese dell'anomalia
di Massimo Giannini

Nell'esausta democrazia italiana, malata di opposti estremismi e di mutui immobilismi, è difficile anche morire. Tra grandi montagne di rifiuti materiali e piccole vendette personali, le ultime ore di vita del governo di Romano Prodi sono un tormento politico e un calvario mediatico. Nulla è normale, lineare, fisiologico, nell'irrisolta e mai realmente compiuta Seconda Repubblica.

In qualunque altro Paese dell'Europa moderna una maggioranza cade in Parlamento, per una rottura politica che gli elettori capiscono, e di cui comprendono le ragioni. Solo in Italia il leader di un piccolo partito può annunciare la fine di una maggioranza politica in una conferenza stampa, e poi nel solito salotto di Porta a porta. Senza prima spiegare alle Camere le sue motivazioni, e senza rendere conto all'opinione pubblica delle sue decisioni.

La "rupture" di Clemente Mastella è il gesto irresponsabile di un ministro Guardasigilli che, colpito da una pesante e non del tutto convincente inchiesta della magistratura, ha trasformato se stesso in un martire, mai abbastanza "protetto" dai suoi stessi alleati. E fingendo di immolare se stesso sull'altare della persecuzione giudiziaria, ha finito per sacrificare il governo sull'altare della convenienza politica. Forse l'ha fatto per evitare comunque le forche caudine del referendum, come lasciano pensare le mosse dell'Udeur successive al via libera della Consulta ai quesiti. O forse l'ha fatto perché ha già in tasca un accordo con Berlusconi, come lascia sospettare la sua pretesa, del tutto irrituale, di ottenere "la crisi di governo e le elezioni anticipate".

Sta di fatto che questo, probabilmente, è l'atto finale con il quale si compie il destino di Prodi, e si avvera l'ormai celebre profezia di Fausto Bertinotti, che aveva paragonato il premier al Cardarelli di Flaiano, "il più grande poeta morente". È anche, verosimilmente, il rito di passaggio che finirà per riportare gli italiani alle urne, con tre anni di anticipo sulla regolare scadenza della legislatura. Ma neanche quest'ultimo strappo, al momento, è ancora sufficiente a trasformare una crisi virtuale, che purtroppo dura ormai da qualche mese, in una vera e propria crisi formale. C'è modo e modo di morire. E se proprio gli tocca, Prodi vuol morire a modo suo. In un modo che lasci il segno, non solo sulla sua immagine personale di questi giorni, ma anche e soprattutto sull'anomala transizione italiana di questi anni.

Per questo la sua strategia, messa a punto nella notte insieme ai colleghi ministri e ai leader del centrosinistra, prevede una serie di tappe che non appaiono del tutto scontate, e che potrebbero riservare persino ulteriori sorprese.

Prodi oggi non andrà a dimettersi nelle mani del Capo dello Stato, come gli chiede in coro il centrodestra ricompattato dall'eutanasia del centrosinistra. Si presenterà invece alla Camera, per il dibattito sulla giustizia, o facendosi approvare un ordine del giorno, o chiedendo esplicitamente la fiducia. La otterrà, perché nonostante tutto il Pd e la sinistra radicale non hanno alcuna intenzione di staccare la spina, e perché a Montecitorio il governo ha i numeri anche senza l'Udeur.

A quel punto, forte di questo imprimatur di un ramo del Parlamento, affronterà le forche caudine del Senato. E a Palazzo Madama, se nel frattempo non fosse riuscito un tentativo estremo di far rientrare Mastella, o quanto meno di convincere i dubbiosi del suo partito a recedere dal proposito di uscire dalla maggioranza, il premier potrà anche cadere. Ma nella caduta, marcherà a fuoco l'intollerabile anomalia del sistema politico-istituzionale: un voto disgiunto tra la Camera che dà la fiducia e il Senato che la nega, ultimo frutto avvelenato di una legge elettorale scellerata (il "porcellum"). E così segnalerà una volta di più l'urgenza di non interrompere il cammino del governo, perché anche ad esso è collegato il cammino delle riforme istituzionali ed elettorali necessarie a superare quell'anomalia di sistema.

Visto nell'ottica degli "addetti ai lavori", in questo percorso tortuoso c'è un elemento di valutazione che anche il presidente della Repubblica, quando sarà chiamato a decidere il da farsi, non potrà trascurare del tutto. Ma non si può negare che, visto invece in nell'ottica della gente comune, questo può sembrare un inutile, disperato bizantinismo del Palazzo romano.

Si può capire che Walter Veltroni, e con lui lo stato maggiore del Pd, faccia di tutto per sostenere il tentativo del governo. Ha vissuto con crescente disagio il dovere morale di intestarsene i problemi, dallo scandalo dei rifiuti a Napoli allo stesso caso Mastella. Ha dovuto procedere, con andatura a tratti schizofrenica, su un doppio binario: la condivisione forzata (esprimendo solidarietà politicamente "costose" perché altamente impopolari, per esempio a Bassolino e a Pecoraro-Scanio) e la vocazione maggioritaria (sostenendo costantemente la sfida ai "nanetti" dell'Unione sulla libertà del Pd di presentarsi da solo qualunque sia il sistema elettorale, che ha finito per far saltare i nervi all'Udeur).

Proprio oggi, nonostante tutto, Veltroni non può permettersi il lusso di scaricare Prodi, senza pagare a sua volta il prezzo di una co-gestione dei suoi insuccessi più recenti: dall'azione di governo allo stesso esito, purtroppo improduttivo, del dialogo sulla riforma elettorale.

Questo tema chiama in causa l'altro protagonista di questa fase cruciale. Non si capisce perché mai Silvio Berlusconi dovrebbe fermarsi, ormai a meno di un metro dal traguardo che insegue da un anno e mezzo di spallate fallite. Il Cavaliere ha tutto l'interesse a sbarrare la strada non solo alla sopravvivenza di Prodi, il che è fin troppo ovvio, ma anche a qualunque altra ipotesi che non contempli le elezioni anticipate. Governo tecnico-istituzionale compreso. Conoscendo il soggetto, già pareva difficile individuare la sua convenienza a fare un accordo con Veltroni sul "Vassallum" o sulla bozza Bianco, che avrebbe allungato la vita a un Prodi solido al governo.

Figuriamoci dove può essere il suo vantaggio ad assecondare l'operazione proprio adesso, appoggiando un tentativo ulteriore di un Marini o di chissà chi altro, con un Prodi ormai "morente" a Palazzo Chigi. Il richiamo della foresta, per il Cavaliere, è a questo punto troppo forte. E Fini e Casini, in queste condizioni-capestro, non possono resistergli senza dare ai rispettivi elettorati l'impressione di voler azzardare chissà quale inciucio.

Per questo, alla fine, l'epilogo di questa crisi saranno le elezioni anticipate. Solo dopo averle vinte, semmai, Berlusconi potrà fare il nobile gesto da "costituente". E aprire lui, a quel punto, da sovrano illuminato e autocandidato al Quirinale, la stagione delle "larghe intese". È un'ipotesi suggestiva, che lo consegnerebbe alla Storia. Ma con il Cavaliere non si sa mai. In fondo, in lui si insinua sempre il dubbio che fu già di Groucho Marx: perché dovrei fare qualcosa per i posteri? Cos'hanno fatto i posteri per me? Eppure, con l'ultimo audace colpo di dannunziano autolesionismo, è proprio a quest'uomo che un centrosinistra ormai a pezzi sta per riconsegnare le chiavi del Paese.

(22 gennaio 2008) - La Repubblica

La foto curiosa sulla prima di oggi.



Riporto un post dell'autorevole Mantellini relativo alla foto pubblicata oggi sulla prima pagina di Repubblica.

"E' da questa mattina che di tanto in tanto mi cade l'occhio sulla fantastica foto di prima pagina di Repubblica di oggi. E' una foto a commento della crisi delle Borse ed assomiglia abbastanza a tante altre foto simili gia' viste in passato. Ci sono operatori di borsa in maniche di camicia sorpresi in atteggiamenti concitati. Ma la cosa fantastica e' che tutti i tizi immortalati tengono all'orecchio enormi telefoni rossi e gialli in tutto simili a citofoni di grandi dimensioni (tipo un mattone, per dire) con una lunga antenna nera in alto. Una via di mezzo fra un paleotelefonino (a colori pero') e il giocattolo plasticoso di una Barbie enorme".

Manteblog

lunedì 21 gennaio 2008

Alla fine, Alberto Flores D'Arcais è volato a Las Vegas.


Alberto Flores D'Arcais , in extremis, è volato a Las Vegas per le primarie.

Smentendoci brutalmente.

Nella foto un adesivo mica male a sostegno della Clinton.

E' morto Pino Careddu, storico fondatore di Sassari Sera.



L'altroieri ho saputo della morte di Pino Careddu, grande giornalista sardo, fondatore del settimanale di controinformazione Sassari Sera.

Pino non era molto conosciuto nell'ambiente giornalistico, però era molto bravo.

Rimane storica la caricatura (nella foto) che gli fece il suo amico Gavino Sanna.

Di seguito un ricordo di Pino Careddu firmato da Gibi Puggioni, uno che lo conosceva bene.

Nella vita di un giornalista arriva sempre un momento in cui si deve scrivere di un caro amico scomparso. Oggi quello che non avrei mai voluto fare tocca a me. Per annunciare che questa mattina poco prima delle 8 è morto al Policlinico di Sassari il giornalista Pino Careddu. Era nato a La Maddalena 74 anni fa. Fondatore del periodico Sassari sera, l'unico giornale di controinformazione che per decenni si è fatto odiare e amare in egual misura per il coraggio delle sue denunce. Pino era stato il mio maestro e un fraterno amico. Era un giornalista coraggioso, irriverente, mai succube dei potenti. Oggi c'è chi lo piange ma forse anche chi avverte il sollievo di essersi tolto di torno un giornalista scomodo. Pino lo si poteva amare totalmente o odiare con tutte le forze. Non c'erano vie di mezzo. Ma anche i suoi avversari, i più intelligenti ovviamente, Cossiga su tutti, pur attaccati dal suo giornale, lo accettavano perché gli riconoscevano un'intelligenza e una cultura che pochi fra quelli che fanno il nostro mestiere hanno. Aveva oggi, come 40 anni fa, la stessa curiosità per tutto quanto accadeva, soprattutto in Regione, e lo stesso amore totale per la sua professione. Anche in ospedale si era portato il computer per cominciare a preparare il materiale per quando sarebbe stato dimesso. La morte non glielo ha permesso.

Gibi Puggioni

C'è un altro blog che fa le pulci ai giornali.

Abbiamo scovato nei meandri della rete il blog Appropò-La versione di Eddy che periodicamente fa le pulci ai principali quotidiani italiani.

Ecco quanto scrive oggi:

Corriere della sera:
Acuto editoriale di Francesco Giavazzi ("Giù le tasse ora o mai più"), che in un passaggio evoca una tesi di Oscar Giannino, il concetto che solo riducendo le tasse si può costringere i politici a diminuire la spesa pubblica. Detta così pare strana, ma leggetevi il libro di Giannino e ne riparliamo.
Meditate poi sulla lettera aperta di Francesco Cossiga al presidente Giorgio Napolitano (pag. 6). E rimeditateci quando, domani e dopodomani, verificherete che nessuno avrà il coraggio di smentirne il contenuto. Incidentalmente, desta meraviglia e preoccupazione il bavaglio messo dai media a Cossiga e alle sue iniziative (ieri si è autodenunciato per avere raccomandato in Rai Bianca Berlinguer e Federica Sciarelli).

Piuttosto insipida questo lunedì La Stampa. Merita attenzione solo pag.23, con la notizia del raddoppio delle tasse comunali negli ultimi 5 anni. Provate ad aggiugere multe, APS e telcamere e il quadro si farà ancora più chiaro (o fosco). Incomprensibile il trafiletto a pag. 20 ("Terni - Don Gelmini telefona dal Costarica"). Chi vi ravvisasse una notizia lo segnali in un commento. A meno che la notizia sia che Don Gelmini "ha scelto la sede costaricense della sua comunità per riprendersi dai problemi cardiaci che lo avevano colto lo scorso mese..." Peccato che non abbia aperto una sede della sua comunità alle Maldive o alle Seychelles, si sarebbe potuto curare ancora meglio.

La Repubblica sfodera un errore: a pag. 7 in basso una didascalia (imitazione in tv") attribuisce la foto all'imitazione che Max Giusti avrebbe fatto di Mastella ieri a "Quelli che il calcio", mentre chi ha visto la tv sa che si trattava dell'imitazione di Stefano Ricucci, in onda per tutto il pomeriggio. Il bonsai di Sebastiano Messina (pag. 11) è assai gustoso. Soprattutto poi se nel virgolettato finale alla parola UDEUR se ne sostituisce una a noi qui più cara.

venerdì 18 gennaio 2008

Incredibile! Repubblica che copia il Corriere che copia La Stampa che copia Repubblica...

Indovinate come si chiama il fondo di Francesco Merlo su Repubblica di oggi?
Così fan tutti.

E indovinate come si chiama quello di Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera?
Così fan tutti.

Ma non è finita: indovinate come si chiama quello di Lucia Annunziata sul la Stampa?
Così fan tutti.

Tre inviati in odor d'Udeur.



Anche oggi la mastelleide si mangia le prime cinque pagine di Repubblica. Di Francesco Merlo e del titolista clonato s'è già parlato. C'è da dire che gli inviati diventano tre: Antonello Caporale a Benevento per la conferenza stampa di Mastella, Dario Del Porto a Santa Maria Capua Vetere ad indagare in procura e la new entry sul pezzo Cristina Zagaria che va a Caserta a scambiare due chiacchiere con Luigi Annunziata, uomo di Mastella che dirige da anni l'Azienda Ospedaliera di Caserta.

Intanto il ministero della giustizia viene preso ad interim da Romano Prodi.

Usa: si vota in South Carolina e in Nevada. Qual è lo stato più vicino a New York? South Carolina. Bene, allora si va là.

Mentre in Nevada l'inviato del Corriere scrive pezzi a ripetizione tra un casinò e l'altro, quelli di Repubblica scelgono la via più breve ed economica e vanno in South Carolina.

Alla Sapienza il papa non c'era. Però c'era la dolce Concita.

Niente papa Ratzinger alla Sapienza.

Però c'era lei.

Con un pezzo dei suoi.

Eccolo:

Studenti spaesati e politici affranti e Ratzinger vince la sfida mediatica.
di CONCITA DE GREGORIO

Un pasticcio. Una "montatura mediatica" dicono con singolare unanimità il Rettore, i collettivi di sinistra che premono fuori dai cancelli, gli studenti di Cielle ammessi a manifestare imbavagliati in aula magna.
Ma la stessa cosa dicono anche i docenti del Senato accademico e i poliziotti riuniti a migliaia nei piazzali deserti. Un carabiniere si accende una sigaretta: «Noi qui che ci stiamo a fare?», domanda a un collega che in risposta alza le spalle. Una studentessa venuta per far lezione si guarda attorno smarrita: «Ma sapete perché c´è tutta questa polizia?».
Una gigantesca grancassa mediatica, «il Papa poteva tranquillamente venire non ci sarebbe stato nessun problema di ordine pubblico», dice ora il Rettore Renato Guarini confermando le parole del ministro Amato - «nessun problema di sicurezza» - e difendendo la sua scelta che anzi ribadisce: «Inviteremo il Santo padre di nuovo». Una giornalista tv americana intervista un docente bardato di ermellino: dunque la lettera del 67 professori "dissidenti" non era indirizzata al Papa ma al Rettore ed è di novembre? «Esatto». Perciò la decisione vaticana di rinunciare all´invito si basa sull´enfasi che i giornali hanno dato alle contestazioni? «Esatto». Marta Fattori, preside della facoltà di Filosofia, aggiunge che «non è stato un tocco di classe quello di diffondere alla stampa il discorso del Papa un giorno prima, così che noi l´abbiamo trovato sui giornali stamattina».
Ancora una volta: prima i giornali e le tv. La notizia che il cardinale Ruini invita tutti i fedeli a manifestare solidarietà al Santo Padre domenica prossima in Piazza San Pietro arriva mentre il sindaco Veltroni prima e il ministro Mussi poi leggono i loro discorsi riscritti da capo la sera prima: discorsi in difesa della libertà di parola del Papa pronunciati, chiarisce Mussi se ce ne fosse bisogno, «da me che non sono un credente e non appartengo alla Chiesa». Entrambi durissimi contro chi alimenta intolleranza, contro i manifestanti. I quali ultimi, fuori dai cancelli, espongono uno striscione che dice «intollerante è chi non accetta il dissenso» e spiegano alle tv, ancora le tv, per bocca di Sonia, 24 anni, Scienze politiche: «E´ tutto un gigantesco equivoco. Noi non abbiamo chiesto che il Papa non venisse. Abbiamo chiesto invece di essere ammessi a manifestare la nostra opinione. Noi siamo stati censurati e chiusi fuori, non lui. Lui poteva benissimo venire, fare il suo discorso, accettare che ci fosse chi non lo gradiva e farsi applaudire dagli altri. E´ stato lui a decidere di non farlo: un´operazione politica che costringe le istituzioni di sinistra a solidarizzare con la Chiesa, che demonizza la spaccatura fra cattolici e laici e che si risolverà nella manifestazione pro Ratzinger indetta da Ruini per domenica».
La Sapienza è deserta. Le strade attorno sono chiuse al traffico. Decine di camionette impediscono l´accesso. I manifestanti sono trecento, le forze dell´ordine tremila anche più. Poco prima dell´inizio della cerimonia Francesco Caruso deputato no global di Rifondazione, entra dal Rettore a chiedergli di far passare i contestatori riuniti fuori attorno a uno striscione che dice «Via i padroni i preti e i baroni dall´università». Più che col Papa ce l´hanno con Guarini, come chiariranno tra breve i loro cori. «Guarini come Mastella», urlano. Il Rettore, come è noto, è al centro di un´inchiesta denominata "Parentopoli" nata dall´assegnazione di tre incarichi di ricercatore alle sue due figlie e ad uno dei suoi generi. «Ha invitato il Papa per rifarsi l´immagine», urla al megafono un contestatore, da lontano il trotzkista Ferrando, non proprio un ragazzino, annuisce. Guarini congeda Caruso dicendogli che permettere l´ingresso ai manifestanti «non è sua competenza».
Vengono invece fatti entrare in Aula magna, in tribuna, una cinquantina di studenti di area cattolica vicini a Comunione e Liberazione. Ce n´è uno anche in platea, in terza fila. Stanno in piedi, imbavagliati con bende, ascoltano senza applaudire i discorsi di Veltroni e di Mussi, battono le mani solo quando il rappresentante degli studenti autorizzato a parlare, seduto in giacca e cravatta al fianco del sindaco, dice che «quel che succede oggi si deve alla campagna di disinformazione di autorevoli organi di stampa». Alla fine applaudono molto a lungo il testo del Papa, letto per intero. Subito fuori dall´aula magna manifestano i collettivi di destra, anche questi ammessi dentro il perimetro dell´Università.
In sala molti posti sono vuoti. La hostess sulla porta ha una lunghissima lista di invitati che si apre col primo degli assenti: Giulio Andreotti e signora. Vuote le sedie degli ambasciatori. Le autorità più alte in grado, nelle prime file, sono Nando Dalla Chiesa e l´assessore regionale Silvia Costa. L´ospite più illustre Cesare Romiti. Il discorso di Guarini è un lungo elenco dei suoi meriti. Quello di Veltroni un´appassionata perorazione di libertà di parola in favore di colui che la settimana scorsa gli ha rimproverato «il degrado di Roma»: non un accenno alle critiche di Ratzinger alla gestione della città, molte citazioni invece (Calamandrei, un omicida condannato a morte nel Texas, il Dalai Lama e Renzo Piano) «contro l´incultura della paura» perché in assenza di dialogo il destino è «una crisi irreversibile del sistema democratico». Mussi esordisce con «non capisco, non capisco», due volte, perché il Papa non sia qui: parla di Galileo, dice che «aveva ragione lui» ed è appunto questa la ragione suprema per consentire sempre libera circolazione delle idee. E´ la tesi dell´editoriale del Wall Street Journal: un´involontaria ironia comportarsi col Papa come a suo tempo la Chiesa fece con Galileo. Le agenzie di stampa già diffondono le adesioni alla manifestazione convocata da Ruini. Ai microfoni del Tg1 il rettore dice «bisogna intendersi su cosa sono i rischi. Qui a mio avviso per il Papa non ce n´erano. E´ stato giusto invitarlo e poi il Papa è un pastore. Il Papa è un pastore, lo scrive anche Ratzinger nel testo rilegato sotto lo stemma della Santa sede». Per strada, sotto la pioggia, gli ultimi manifestanti arrotolano un lenzuolo: «L´Università non è la vostra vetrina». All´una non c´è più nessuno.

© Copyright Repubblica, 18 gennaio 2008

Menomale che c'è Repubblica.



La prima pagina di Libero di oggi.

Solidarietà per Francesco Viviano e Alessandra Ziniti.

Il blog Pazzo Per Repubblica sostiene la causa dei due giornalisti di Repubblica Francesco Viviano e Alessandra Ziniti, indagati per favoreggiamento alla mafia.

Notizie al rallentatore.

Apprendiamo da Wittgenstein che la notizia che appare oggi in prima su Repubblica e che racconta la strage di palme vittime di un coleottero imbattibile, in realtà era già stata data dalla Stampa a ottobre.

Bel colpo.

Grande successo per la Mastelleide di Filippo Ceccarelli.

Riceviamo e volentieri pubblichiamo:

"Un articolo quello di Filippo che dà uno spaccato realistico della vita dei coniugi Mastella che con acume tattico, per dirlo in termini calcistici, hanno saputo cavalcare l'onda del successo politico e piazzare due su due leaders della famiglia ai timoni di comando.Molti nutrono dei dubbi sulle reali capacità politiche della coppia ma nessuno mette in dubbio la loro forza di dissuasione fatta di sorrisi, sfarzi e promesse al limite della praticabilità . La loro capacità di essere sempre l'ago della bilancia li rende capaci di chiedere ed ottenere qualsiasi privilegio e/o incarico e la loro modestia è pari zero.A Benevento sono idoladrati ma fuori dalle mura la contrarietà è inestimabile.Il partito è gestito a conduzione familiare e i seguaci , spesso compari e amici di famiglia ne seguono più che iscritti sembrano adepti.Filippo Ceccarelli ha preso in pieno la Saga familiare e ne ha descritto sapientemente le trame, per lui non è stato difficile perchè custode di un archivio fantastico specie sul Parlamento e i suoi componenti".

Anonimo lettore del blog PazzoPerRepubblica.

Paolo Valentino del Corriere è già a Las Vegas. E i nostri? Quand'è che muovono il culo?

Paolo Valentino del Corriere è già a Las Vegas per le primarie.
E i nostri? Quand'è che muovono il culo?

giovedì 17 gennaio 2008

Altro terremoto in Campania: dopo la Monnezza arriva la Mastella.



Indagati i coniugi Mastella, lui si dimette e lei è agli arresti domiciliari. Scombussolata la redazione campana di Repubblica, che si stava riprendendo dalle fatiche monnezzare. Clemente Mastella e Sandra Lonardo obbligano agli straordinari gente del calibro di Filippo Ceccarelli (qui il suo pezzo delizioso), Massimo Giannini e Carlo Bonini.
Di Antonello Caporale in gita a Ceppaloni abbiamo già parlato nel post precedente. Dario Del Porto invece è corso a Santa Maria Capua Vetere da dove è partito tutto il casino.

Antonello Caporale va a Ceppaloni a farsi insultare in diretta da Roberto Castelli a Matrix.

Scintillante scambio di vedute ieri sera in diretta a Matrix tra l'inviato di Repubblica a Ceppaloni Antonello Caporale e l'ospite in studio Roberto Castelli, ex ministro della giustizia.

A un certo punto la discussione si sposta sul problema della spazzatura a Napoli e Castelli si inserisce dicendo che da lui, in Lombardia, se un sacchetto rimane in strada più del dovuto, arriva qualcuno e per conto suo lo porta in discarica e quindi la Lombardia non ha mai avuto e mai avrà problemi di spazzatura accumulata nelle strade. Risponde Caporale: voi lumbard siete sempre quelli che fate le cose al meglio...E Castelli: certo! Qualcuno mi spieghi perchè quando i lombardi hanno un problema se lo devono risolvere da soli e quando il problema ce l'hanno a Napoli lo deve risolvere lo Stato. E conclude incazzato: ha capito Antonello Caporale dei miei stivali!!!

Al che, un secondo dopo, Castelli si è scusato con l'interessato e con Mentana per il linguaggio non tanto ortodosso.

Caporale ha pensato bene di lasciar perdere.

mercoledì 16 gennaio 2008

PapaRaus! Repubblica dedica 5 pagine al rifiuto del pontefice. Un fondo di Ezio Mauro sostiene che questo sarà un giorno che ricorderemo negli anni.



Lo storico rifiuto di Papa Ratzinger dopo le contestazioni all'università La Sapienza di Roma.

Su Repubblica cinque pagine di commenti con pezzi di Filippo Ceccarelli, Adriano Prosperi, Gianluca Luzi, Alberto Custodero, Giovanna Vitale, Marco Politi (of course), Anna Maria Liguori, Elena Dusi, Francesco Bei, Claudio Tito e Goggredo De Marchis.

E la chicca del commento in prima pagina dell'operoso Ezio Mauro che riportiamo qui sotto:

Un'idea malata di Ezio Mauro

Sarà' un giorno che ricorderemo negli anni, il giorno in cui il Papa non parlò all'Università italiana per la contestazione dei professori e la ribellione degli studenti. Una data spartiacque per i rapporti tra chi crede e chi non crede, tra la fede e la laicità, persino tra lo Stato e la Chiesa. Fino a ieri, questo era un Paese tollerante, dove la forte impronta religiosa, culturale, sociale e politica del cattolicesimo coesisteva con opinioni, pratiche, culture e fedi diverse, garantite dall'autonomia dello Stato repubblicano, secondo la regola della Costituzione.

Qualcosa si è rotto, drammaticamente, sotto gli occhi del mondo. Il Papa deve correggere la sua agenda e cambiare i suoi programmi, per non affrontare la contestazione annunciata di un'Università che lo aveva invitato con il rettore e il senato accademico, ma lo rifiutava con una parte importante di docenti e studenti. Il risultato è un cortocircuito culturale e politico d'impatto mondiale, che si può riassumere in poche parole: il Papa, che è anche vescovo di Roma, non può parlare all'Università della sua città, in questa Italia mediocre del 2008.

Questo risultato, che sa di censura, di rifiuto del dialogo e del confronto, è inaccettabile per un Paese democratico e per tutti coloro che credono nella libertà delle idee e della loro espressione. È tanto più inaccettabile che avvenga in un'Università, anzi nella più importante Università pubblica d'Italia, il luogo della ricerca, del confronto culturale e del sapere, un luogo che di per sé non deve avere barriere né pregiudizi, visto che non predica la Verità ma la scienza e la conoscenza. È come se la Sapienza rinunciasse alla sua missione e ai suoi doveri, chiudendosi in un rifiuto che è insieme un gesto di intolleranza e di paura.

Sbagliata l'occasione, puerili le proteste e le aggressioni, profondamente inadeguate le reazioni. Sbagliata l'occasione: l'inaugurazione solenne non è, in Italia e nell'università di Stato, un momento di severo bilancio dello stato di avanzamento delle conoscenze, un resoconto di ciò che ricercatori e istituzioni hanno fatto per progredire, un richiamo alle leggi sostanziali che sole governano la possibilità di ricercare e di conoscere ciò che non si sa.
Questo accade in altri luoghi; bisogna leggere il report annuale del Mit per avere un'idea della severità della scienza, non certo i documenti elaborati dalle nostre corporazioni accademiche sempre più immiserite e incanaglite.

L'inaugurazione è solo un momento di teatro, un rito di magniloquenza arcaica, di toghe e di ermellini e di alte uniformi, che si presta come pochi alla parodia e allo sberleffo (Totò lo sapeva bene). Un rito che passa per lo più inosservato - a parte gli intasamenti nel traffico e la noia di chi deve parteciparvi d'ufficio - in un paese dove molto si inaugura e poco si costruisce. Si taglia un nastro, si pronunziano parole solenni e poi le autorità se ne vanno e tutto resta come prima: ospedali, strade, ponti e certo anche i promessi istituti di "alta" ricerca, che fioriscono in luoghi diversi a seconda del ministro di turno.

Nelle università statali italiane di cui La Sapienza è sicuramente la più grande e la più nota la solennità del rito si misura dalle autorità che vi intervengono prima e più che dalle sonanti parole e dalle moralità alte che vi si predicano. E allora perché invitare il Papa? Tutti i giorni, spesso più volte al giorno, la parola del Papa è diffusa da tutte le televisioni italiane con una assiduità che non conosce l'eguale nel mondo. E perché non invitarlo? Gli si fa carico di una frase?

Dunque l'Università o una parte di essa si propone oggi come l'istituzione che ha il diritto di togliere la parola, di censurare un'opinione. Ma questo non è certo un risarcimento a Galileo, non è la vendetta postuma - a quanta distanza - del processo del 1632. E un rovesciamento grottesco dei ruoli grazie al quale l'erede dei giudici che allora imposero il silenzio allo scienziato fiorentino potrebbe - potrà - presentarsi da oggi col segno del martirio, come vittima dell'odiosa censura.

Ed è un vero peccato - nel senso banale della parola, beninteso - che nessuno degli attori, nemmeno il Papa, si sia dimostrato capace di andare al di là del canovaccio prevedibile. Perché rifiutarsi all'incontro? Perché non cogliere l'occasione di trasformare finalmente la seriosa noiosità delle inaugurazioni in una vera esperienza di comunicazione, di discussione, di parola libera e liberatrice in cui ciascuno si mette davvero in gioco abbandonando l'ingessata sicurezza della parola solenne e senza interlocutori? Qualcuno ricorderà il comizio di Lama: altri tempi, altri uomini. E non vogliamo comizi. Piuttosto, sarebbe bello se il mondo accademico italiano e tutte le autorità italiche imparassero il gusto dell'ironia, dell'amabile e graffiante intelligenza di chi ha veramente qualcosa da dire e cerca di dirlo pienamente.

Ora, alla contestazione è seguito il rifiuto. Sfrutterà il Papa quest'occasione di una specie di Porta Pia a rovescio? Ci auguriamo che nel suo animo di professore abituato alle vicende universitarie il senso della maestà offesa non prevalga sulla saggezza dello studioso e dell'insegnante obbligato al dovere di parlare, di ascoltare, di capire gli altri, di aprire le porte del dialogo per dare speranza di futuro alla specie umana in un pianeta a rischio.

Ma, se non lui, altri si occuperanno sicuramente di sfruttare questa censura e di amplificarla allo scopo di rendere ancor più salato il conto da presentare alle impaurite compagini governative, agli scalpitanti candidati alla successione del governo in carica. Tutto questo è anche, inevitabilmente, ridicolo, ma è vietato riderne: è, purtroppo, tragico, Appartiene al ciclo dell'implosione italica che dura da troppo tempo e non accenna ad arrestarsi.

Condividiamo tutto il senso di umiliazione di Vittorio Foa, che trova intollerabile, incomprensibile, stupefacente l'immagine di un'"Italia debole e infragilita" vista con uno sguardo che viene da lontano. Ma Foa sa bene che oggi l'arroganza dell'aggressione clericale viene dai pulpiti più imprevedibilmente: "laici" ne abbiamo un esempio nel rotolare di una parola - "moratoria" - dai seggi dell'Onu agli ambulatori ospedalieri una parola che rotolando muta di significato: significava sospensione della pena di morte, oggi diventa moratoria di quella legge 194, che fu a suo tempo esattamente una moratoria: quella della sentenza capitale incombente sull'aborto clandestino.

Dunque, moratoria della moratoria, sospensione della sospensione. Da chi verrà una parola di chiarezza, di conoscenza libera da bandiere e paraocchi, se le università che dovrebbero praticare l'unica ricerca degna di questo nome - la conoscenza di ciò che ci è oscuro e che ancora non sappiamo, una conoscenza quindi che non è né laica né ecclesiastica ma è solo e soprattutto fatta di libertà intellettuale anche dai propri presupposti del ricercatore - se queste università si abbandonano al gioco infantile del fare dispetti ai potenti, se le forze politiche non si decidono a dare alla scuola e all'università italiana i mezzi e gli strumenti per risalire la china della barbarie in cui vengono fatte precipitare da anni? Eppure questo, solo questo sarebbe un bel modo per celebrare coi fatti la memoria di Galileo Galilei.

(16 gennaio 2008) - La Repubblica