martedì 22 gennaio 2008

Crisi di governo: ci vuole un Prodigio.



Solo un Prodigio può salvare il governo dalle elezioni anticipate.

Ma cosa è successo veramente?

Ce lo ha spiegato perfettamente oggi su Repubblica Massimo Giannini.

Il Paese dell'anomalia
di Massimo Giannini

Nell'esausta democrazia italiana, malata di opposti estremismi e di mutui immobilismi, è difficile anche morire. Tra grandi montagne di rifiuti materiali e piccole vendette personali, le ultime ore di vita del governo di Romano Prodi sono un tormento politico e un calvario mediatico. Nulla è normale, lineare, fisiologico, nell'irrisolta e mai realmente compiuta Seconda Repubblica.

In qualunque altro Paese dell'Europa moderna una maggioranza cade in Parlamento, per una rottura politica che gli elettori capiscono, e di cui comprendono le ragioni. Solo in Italia il leader di un piccolo partito può annunciare la fine di una maggioranza politica in una conferenza stampa, e poi nel solito salotto di Porta a porta. Senza prima spiegare alle Camere le sue motivazioni, e senza rendere conto all'opinione pubblica delle sue decisioni.

La "rupture" di Clemente Mastella è il gesto irresponsabile di un ministro Guardasigilli che, colpito da una pesante e non del tutto convincente inchiesta della magistratura, ha trasformato se stesso in un martire, mai abbastanza "protetto" dai suoi stessi alleati. E fingendo di immolare se stesso sull'altare della persecuzione giudiziaria, ha finito per sacrificare il governo sull'altare della convenienza politica. Forse l'ha fatto per evitare comunque le forche caudine del referendum, come lasciano pensare le mosse dell'Udeur successive al via libera della Consulta ai quesiti. O forse l'ha fatto perché ha già in tasca un accordo con Berlusconi, come lascia sospettare la sua pretesa, del tutto irrituale, di ottenere "la crisi di governo e le elezioni anticipate".

Sta di fatto che questo, probabilmente, è l'atto finale con il quale si compie il destino di Prodi, e si avvera l'ormai celebre profezia di Fausto Bertinotti, che aveva paragonato il premier al Cardarelli di Flaiano, "il più grande poeta morente". È anche, verosimilmente, il rito di passaggio che finirà per riportare gli italiani alle urne, con tre anni di anticipo sulla regolare scadenza della legislatura. Ma neanche quest'ultimo strappo, al momento, è ancora sufficiente a trasformare una crisi virtuale, che purtroppo dura ormai da qualche mese, in una vera e propria crisi formale. C'è modo e modo di morire. E se proprio gli tocca, Prodi vuol morire a modo suo. In un modo che lasci il segno, non solo sulla sua immagine personale di questi giorni, ma anche e soprattutto sull'anomala transizione italiana di questi anni.

Per questo la sua strategia, messa a punto nella notte insieme ai colleghi ministri e ai leader del centrosinistra, prevede una serie di tappe che non appaiono del tutto scontate, e che potrebbero riservare persino ulteriori sorprese.

Prodi oggi non andrà a dimettersi nelle mani del Capo dello Stato, come gli chiede in coro il centrodestra ricompattato dall'eutanasia del centrosinistra. Si presenterà invece alla Camera, per il dibattito sulla giustizia, o facendosi approvare un ordine del giorno, o chiedendo esplicitamente la fiducia. La otterrà, perché nonostante tutto il Pd e la sinistra radicale non hanno alcuna intenzione di staccare la spina, e perché a Montecitorio il governo ha i numeri anche senza l'Udeur.

A quel punto, forte di questo imprimatur di un ramo del Parlamento, affronterà le forche caudine del Senato. E a Palazzo Madama, se nel frattempo non fosse riuscito un tentativo estremo di far rientrare Mastella, o quanto meno di convincere i dubbiosi del suo partito a recedere dal proposito di uscire dalla maggioranza, il premier potrà anche cadere. Ma nella caduta, marcherà a fuoco l'intollerabile anomalia del sistema politico-istituzionale: un voto disgiunto tra la Camera che dà la fiducia e il Senato che la nega, ultimo frutto avvelenato di una legge elettorale scellerata (il "porcellum"). E così segnalerà una volta di più l'urgenza di non interrompere il cammino del governo, perché anche ad esso è collegato il cammino delle riforme istituzionali ed elettorali necessarie a superare quell'anomalia di sistema.

Visto nell'ottica degli "addetti ai lavori", in questo percorso tortuoso c'è un elemento di valutazione che anche il presidente della Repubblica, quando sarà chiamato a decidere il da farsi, non potrà trascurare del tutto. Ma non si può negare che, visto invece in nell'ottica della gente comune, questo può sembrare un inutile, disperato bizantinismo del Palazzo romano.

Si può capire che Walter Veltroni, e con lui lo stato maggiore del Pd, faccia di tutto per sostenere il tentativo del governo. Ha vissuto con crescente disagio il dovere morale di intestarsene i problemi, dallo scandalo dei rifiuti a Napoli allo stesso caso Mastella. Ha dovuto procedere, con andatura a tratti schizofrenica, su un doppio binario: la condivisione forzata (esprimendo solidarietà politicamente "costose" perché altamente impopolari, per esempio a Bassolino e a Pecoraro-Scanio) e la vocazione maggioritaria (sostenendo costantemente la sfida ai "nanetti" dell'Unione sulla libertà del Pd di presentarsi da solo qualunque sia il sistema elettorale, che ha finito per far saltare i nervi all'Udeur).

Proprio oggi, nonostante tutto, Veltroni non può permettersi il lusso di scaricare Prodi, senza pagare a sua volta il prezzo di una co-gestione dei suoi insuccessi più recenti: dall'azione di governo allo stesso esito, purtroppo improduttivo, del dialogo sulla riforma elettorale.

Questo tema chiama in causa l'altro protagonista di questa fase cruciale. Non si capisce perché mai Silvio Berlusconi dovrebbe fermarsi, ormai a meno di un metro dal traguardo che insegue da un anno e mezzo di spallate fallite. Il Cavaliere ha tutto l'interesse a sbarrare la strada non solo alla sopravvivenza di Prodi, il che è fin troppo ovvio, ma anche a qualunque altra ipotesi che non contempli le elezioni anticipate. Governo tecnico-istituzionale compreso. Conoscendo il soggetto, già pareva difficile individuare la sua convenienza a fare un accordo con Veltroni sul "Vassallum" o sulla bozza Bianco, che avrebbe allungato la vita a un Prodi solido al governo.

Figuriamoci dove può essere il suo vantaggio ad assecondare l'operazione proprio adesso, appoggiando un tentativo ulteriore di un Marini o di chissà chi altro, con un Prodi ormai "morente" a Palazzo Chigi. Il richiamo della foresta, per il Cavaliere, è a questo punto troppo forte. E Fini e Casini, in queste condizioni-capestro, non possono resistergli senza dare ai rispettivi elettorati l'impressione di voler azzardare chissà quale inciucio.

Per questo, alla fine, l'epilogo di questa crisi saranno le elezioni anticipate. Solo dopo averle vinte, semmai, Berlusconi potrà fare il nobile gesto da "costituente". E aprire lui, a quel punto, da sovrano illuminato e autocandidato al Quirinale, la stagione delle "larghe intese". È un'ipotesi suggestiva, che lo consegnerebbe alla Storia. Ma con il Cavaliere non si sa mai. In fondo, in lui si insinua sempre il dubbio che fu già di Groucho Marx: perché dovrei fare qualcosa per i posteri? Cos'hanno fatto i posteri per me? Eppure, con l'ultimo audace colpo di dannunziano autolesionismo, è proprio a quest'uomo che un centrosinistra ormai a pezzi sta per riconsegnare le chiavi del Paese.

(22 gennaio 2008) - La Repubblica

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