lunedì 7 aprile 2008

Bel reportage da Dharamsala dell'inviato (ed ex rapito) col lutto.



Ecco la versione integrale del reportage di Daniele Mastrogiacomo da Dharamsala:

DHARAMSALA - Le foto sono sbiadite, i colori spenti, le figure sgranate. Le hanno immortalate con il cellulare, tra le vie, gli anfratti, le case anonime di Lhasa: scatti frettolosi, rubati, mentre i reparti speciali della polizia e l'esercito cinese davano la caccia ai feriti e portavano via i morti della rivolta. Adesso sono lì, prove crude e concrete; per un mondo che prima inorridisce, s'indigna, condanna e poi, sommessamente, chiude gli occhi e rimuove, schiacciato dagli interessi economici, deciso a non alterare gli equilibri geopolitici di un'area che resta e deve restare immutata. Corpi nudi, di uomini. Corpi deformati dai colpi, dalle percosse, le bocche chiuse in una smorfia che non sai se attribuire al dolore o all'ultimo respiro di un'agonia infinita.

Cadaveri distesi pieni di sangue rattrappito, i fori dei proiettili all'altezza del viso, del petto, dei fianchi, delle gambe, della schiena, della testa. Qualcuno ha avuto la forza e il coraggio di spedirli ad altri cellulari, a siti sicuri e protetti del web in una corsa contro il tempo. Prima del black-out, dei ripetitori disattivati, del blocco delle linee telefoniche, delle tv oscurate, delle retate porta a porta, nei monasteri, nelle università, negli alberghi, negli ospedali. Prima degli arresti e del cerchio di acciaio e piombo che ha sigillato l'intero Tibet.

Le foto, stampate come un manifesto, campeggiano su un filo di naylon teso sopra il cancello d'ingresso del "Tsuglakhang complex", la residenza ufficiale in esilio del Dalai Lama immersa nel cuore di McLeod Ganj, India del nord, il villaggio-simbolo del Tibet in fuga abbarbicato sul costone di una montagna che si arrampica verso la catena dell'Himalaya. Quaranta uomini e quaranta donne del villaggio, seduti in due distinti recinti, gli uni di fronte alle altre, proseguono da tre settimane lo sciopero della fame e della sete.

Si danno il cambio ogni 12 ore. Cantano a voce bassa, pregano, sollevano provati le dita della mano in segno di vittoria. Le voci si affievoliscono con il passare delle ore, i corpi si distendono, qualcuno crolla tra coperte e giacche, teli, cartelli con gli slogan, incensi che bruciano. Davanti ondeggiano le foto, sospinte da folate di vento gelido che scende dalle vette innevate dell'Himalaya. Sono un pugno allo stomaco. Centinaia di persone le osservano, le fotografano, le filmano, le studiano da vicino. Chi per riconoscere un familiare, un amico, un conoscente.

Chi soltanto per inorridire di fronte ad una mattanza che difficilmente troverà giustizia. Nonostante le proteste di mezzo mondo, pochissimi paesi hanno insistito per sapere la verità. Il mitico "Shangri-là", il tetto del mondo, la terra nella quale il buddismo, simbolo di pace e di tolleranza, affonda le sue radici, resta chiuso agli stranieri e ai turisti cinesi. Bisognerà attendere il primo maggio, festa dei lavoratori, data scelta da Pechino con chiara valenza politica, per capire e vedere con i propri occhi cosa sta veramente accadendo dal 10 scorso a Lhasa e nelle province vicine di Sichan, Gansu e Qinghai.

Attraverso il segretario del partito comunista del Tibet, la Cina ha annunciato che da quel giorno la regione centroasiatica riaprirà i battenti al mondo. Perché l'industria turistica ha risentito del blocco e perché Pechino vuole presentarsi a testa alta all'appuntamento con le Olimpiadi di agosto.

Le voci che giungono qui raccontano di carri armati schierati nei principali incroci di Lhasa, di monasteri ancora chiusi e assediati, di pattugliamenti incessanti su tutte le strade e di elicotteri che volteggiano in cielo pronti a mitragliare il primo assembramento sospetto. Non sappiamo se sia vero. Sappiamo solo ciò che raccontano le testimonianze raccolte e riproposte ogni giorno a McLeod Ganj durante il corteo che si snoda lungo le vie del villaggio per tenere accesa l'attenzione sul Tibet.

Storie che si assomigliano tutte, per l'orrore che svelano e per il terrore di chi le racconta. Il tempo, però, tende a smorzare i sentimenti. Più passano i giorni più l'appuntamento delle sei del pomeriggio, un pellegrinaggio di monaci, sostenitori, turisti, ragazzi e ragazze venuti da ogni angolo del pianeta, le candele accese, bandiere tibetane, preghiere e slogan, sembra un rito stanco. Un ragazzo, armato di megafono, passa per tutte le vie del villaggio e invita la gente a radunarsi.

L'appello è accolto, più per forma che per sostanza. E ogni giorno la folla dei primi momenti, quando questa fetta di Tibet in esilio si radunava in massa, chiudeva negozi, bar e ristoranti e gridava la sua rabbia mista al dolore, si assottiglia sempre di più.

Resistono l'orgoglio di un popolo defraudato della sua terra, il desiderio di verità e di giustizia, una solidarietà diffusa, istintiva. Ma in giro si respira un sentimento di impotenza. Per ben quattro volte, negli ultimi dieci giorni, i vertici di India e Cina si sono sentiti al telefono: Pechino ha chiesto a New Delhi garanzie sul percorso della fiaccola olimpica che il 17 aprile passerà nella capitale e ha sollecitato una presa di posizione più decisa sul tema del Tibet.

Il premier Manmohan Singh si è detto contrario al boicottaggio dei Giochi e ha sollecitato il Dalai Lama a non svolgere alcuna attività politica anticinese fino a quando sarà ospitato. Perfino il gesto di Baichung Bhutia, capitano della nazionale di calcio indiana, considerato una vera star per aver diffuso il football in un paese che vive solo per il cricket, è caduto nel vuoto. Ha respinto l'invito a portare la fiaccola quando passerà a New Delhi. Ma è rimasto solo. Nessuna delle altre 50 celebrità dello spettacolo e dello sport coinvolte nell'operazione politico-diplomatica si è tirata indietro. Ammir Khan, stella di Bollywood a cui si era appellato lo Tibetan youth congress, si è detto "orgoglioso" di alzare la fiamma olimpica. "Nessuno rifiuta", ha motivato, "non vedo perché l'India dovrebbe rinunciare a questo onore".

Sorride nervoso il presidente della Tibetan youth congress, Tsewang Rigzin: "Da un punto di vista religioso rispettiamo le opinioni del Dalai Lama ma sul piano politico siamo favorevoli al boicottaggio. Far passare per Lhasa e piantare sulla cima dell'Everest la fiaccola è un gesto politico, non sportivo".

Anche la gente di McLeod Ganj non si rassegna. Ma la vita deve ricominciare. Riaprono i negozi, gli alberghi, i bar, le sale da tè, i ristoranti. I turisti di sempre arrivano giorno e notte, con gli autobus carichi all'inverosimile, i taxi traballanti, i treni colmi di passeggeri. Un fiume umano di donne, uomini, spesso giovanissimi, che qui cerca la soluzione ai propri affanni. Con corsi di filosofia tibetana, di magia, di massaggi, di lingua, di astrologia, di yoga e di meditazione. Tra nobile volontariato, bonzi fuggiti da un inferno, qualche cialtrone e i soliti approfittatori. La gente segue, studia, partecipa. S'immerge fino al collo in questo ambiente, rispettando alla lettera valori e usanze. Sveglia all'alba, niente alcol, fumo e cibo solo vegetariano. C'è chi rimane un mese, chi un anno, chi il resto dei propri giorni. Vanno e vengono. La comunità tibetana vive anche su questo. Sognando, da mezzo secolo, di tornare un giorno a casa.

Gruppi di ragazzi si allenano correndo sulle strade in salita del paese, altri si riscaldano con esercizi sulle terrazze dei campi coltivati a grano. Forse pensano alle Olimpiadi. Quelle vere, libere. Con la bandiera gialla, blu e rossa del Tibet che garrisce al vento.

(6 aprile 2008) - La Repubblica

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