mercoledì 2 luglio 2008

La Robin Hood Tax: una leva del marketing mix.



Ecco il pezzo di Tito Boeri su Repubblica di ieri:

La Robin tax è solo marketing, la pressione fiscale aumenterà (di Tito Boeri)

Adesso sappiamo a cosa serviva la Robin Hood tax. Si è trattato di un’operazione di marketing dell’ennesimo incremento della pressione fiscale. Lo dicono le cifre scolpi­te sul Documento di Programmazione Econo­mica e Finanziaria (Dpef) depositato in Senato giovedì scorso. Nei prossimi 5 anni avremo più tasse, anziché i consi­stenti tagli alle imposte promessi da tutti gli schieramenti durante una campa­gna elettorale, in cui si gareggiava su chi le avrebbe abbassate di più. La notizia è arrivata assieme all’enne­sima revisione al ribasso delle stime di crescita: gli italiani hanno cosi sa­puto che le tasse sono destinate a mangiare anche quel poco di incre­mento dei redditi che il nostro pae­se, ormai fanalino di coda nell’Eu­ropa a 15, sembra destinato a gene­rare nei prossimi anni. Per addolci­re la pillola, gli inasprimenti fiscali vengono presentati nel Dpef come misure di “perequazione tributa­ria”, che “non mettono le mani nelle tasche dei cittadini”. In effetti le mani in tasca le metteranno le bol­lette di luce e gas e, presto, i nuovi rincari del carburante provocati dalla Robin Hood Tax. Questa ha già fatto lievitare i prezzi alla borsa elet­trica del 23%. E mentre gli esperti di comunicazione discettano della foggia della “social card” per gli an­ziani, tra le pieghe del Dpef si scopre che solo il 5 per cento del gettito della Robin Hood Tax verrà destinato ai buoni pasto per i poveri. Spendere­mo per loro in tre anni molto meno di quanto destinato a mantenere in vita Alitalia per tre mesi, il tempo necessario per salvare … la faccia al nostro presidente del Consiglio che troppo si è sbilanciato a riguardo in campagna elettorale. Questione di priorità. C’è in questa operazione di marketing delle tasse una qual­che continuità fra Tremonti e il suo predecessore alla scrivania di Quintino Sella. Cambiano i riferimenti bibliografici (Robin Hood anziché il Vangelo), si passa dalla vera lotta all’evasione a quella presunta agli extra-pro­fitti, ma si tratta pur sempre di far accettare l’aumento della pressione fiscale agli italiani, nono­stante le disfunzioni dei nostri servizi pubblici. Ma perché nessun governo prova a risanare i conti pubblici tagliando le spese, anziché au­mentando le tasse? Si può pen­sare che sia un problema di de­bolezza dell’esecutivo di fronte a interessi saldamente presidiati. Questo spiegherebbe le mano­vre di Padoa Schioppa, non quelle di Tremonti, che ha sem­pre governato con solide mag­gioranze parlamentari e che og­gi ha un consiglio dei Ministri che gli firma assegni in bianco… in soli nove minuti. C’è, dunque, dell’altro. Il fatto che i tagli di spesa fatti bene, quelli che per­mettono riduzioni di tasse mi­gliorando la qualità dei servizi resi agli italiani, si fanno interve­nendo sui dettagli, rimuovendo i vincoli legislativi e agendo sugli incentivi delle amministrazioni e sul controllo sociale che viene esercitato su di loro dai cittadini. Richiedono interventi silenziosi quanto efficaci, in cui conta il come prima ancora del quanto. Da noi, invece, i tagli sono un mero esercizio contabile, in cui conta mettere una cifra, non verificare che chi deve risparmiare abbia gli incentivi giusti. Prendiamo, ad esempio, la scuola, che conta per quasi il 10% del bilancio dello Stato. La spesa per studente in Italia è la quarta più alta tra i paesi Ocse. Ciò nonostante i rendimenti del­l’istruzione sono da noi molto più bassi che altrove, a giudicare dai risultati di indagini interna­zionali, come i test PISA (Programme for International Student Assessment). Il divario sarebbe ancora più ampio se le va­lutazioni compiute in Italia includessero anche i corsi profes­sionali gestiti dalle Regioni. Il paradosso è che nelle Regioni dove la spesa è più elevata (dove ci sono più docenti per studente) la qualità dell’istruzione è peg­giore. Quindi si può migliorare la qualità dell’istruzione senza au­mentare la spesa o ridurre la spe­sa scolastica senza peggiorare la qualità dell’istruzione. Perché ciò avvenga non si può interve­nire d’imperio da Roma. Biso­gna che i dirigenti scolastici ab­biano maggiore autonomia nel gestire gli organici (i vincoli legi­slativi da rimuovere), ma anche che i loro incentivi corrisponda­no agli interessi della collettività, che vuole pagare meno tasse e avere una scuola migliore. I diri­genti scolastici, sfruttando an­che il calo demografico, possono procedere ad accorpamenti di classi al primo anno, se possibi­le (di nuovo vincoli legislativi da rimuovere) tenendo i docenti migliori, quindi migliorando an­che la qualità della didattica. Possono anche ridurre il più possibile il ricorso ai supplenti, che sono spesso un terno al lotto e che, ovviamente, premono per far aumentare gli organici della scuola, anziché ridurli. Perché a livello locale ci siano gli incenti­vi “giusti”, bisogna che i risparmi possano anche essere utilizzati per migliorare il materiale didat­tico, l’unica cosa che si finisce sempre per tagliare, dato che le lavagne non protestano. Fonda­mentale anche che le famiglie siano consapevoli della qualità dell’istruzione impartita ai loro figli (il controllo sociale) e, ad esempio, non tollerino che, co­me avviene in molte scuole al Sud, le lezioni si concludano un mese prima della fine dell’anno scolastico per permettere di sal­vare gli studenti pericolanti. Se si facesse la valutazione in tutte le scuole, potrebbero decidere meglio a che scuola mandare i propri figli e sosterrebbero i diri­genti scolastici e gli insegnanti che fanno meglio il loro mestie­re, anziché mettere loro i basto­ni tra le ruote. I pochi tagli alle spese operati dalla nostra programmazione economica avvengono, invece, con un semplice tratto di penna. Rimaniamo nel campo della scuola. Il decreto che contiene la manovra d’estate del governo prevede tagli della spesa per l’i­struzione scolastica di 222 milioni nel 2009. Come si è arrivati a questa cifra? Leggendo la relazione tecnica al decreto si scopre che è stata ottenuta “per diffe­renza”. In altre parole, serviva a far quadrare i conti. I ragionieri sono contenti perché il ministe­ro si è impegnato su di un obiet­tivo di riduzione del rapporto fra docenti e alunni che garantisce la riduzione di spesa richiesta da Tremonti, ma il ministero dell’I­struzione non sa dirci come l’o­biettivo verrà raggiunto. Il che significa che non verrà raggiunto e che, probabilmente, causerà notevoli disfunzioni al sistema scolastico. Nella scorsa legislatura era stata avviata una “spending review”, ministero per ministero per studiare proprio come ta­gliare. Il decreto varato la scorsa settimana ha disciolto l’organi­smo, la Commissione tecnica sulla finanza pubblica, che ha condotto queste analisi. Ha questa commissione prodotto qual­che documento prima di essere soppressa? Se sì, perché il mini­stero dell’Economia non lo ren­de pubblico? Sarebbe davvero uno spreco rinunciare ai risulta­ti di queste analisi che qualcosa, anche alle casse dello Stato, sa­ranno pure costate. Una politica economica che oscilla tra il marketing delle tasse e i tagli da ragiunatt non ci porta lontano, non risana i conti pubblici e non ci fa uscire dalla stagnazione. Ci sono poche buone idee in giro. Vediamo di non buttare via, a priori, quelle che sono già lì, a portata di mouse.

Fonte: La Repubblica

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