lunedì 12 aprile 2010

La morte di Berselli: il ricordo di Michele Serra.



L'intellettuale ironico che raccontava il pop

di MICHELE SERRA

Dicono gli amici più vicini che la bella testa di Edmondo, negli ultimi mesi di faticosissima malattia, trovasse requie, e perfino felicità, solo nella scrittura. La cosa non sorprende. La testa di Edmondo era così piena di oggetti, di persone, di pensieri, che non poteva certo starsene in balia del male, a rimuginare sugli orribili impicci che ostano alla nostra libertà di pensare, e ai pensieri dare un senso, un ordine, una dignità formale.
La testa di Edmondo era speciale: difficile da padroneggiare, immagino, anche per lui che ne era il padrone. Era la testa di un accademico, ben strutturata attorno allo studio, politologia, sociologia, la politica dottrinaria, la storia del pensiero. Ma era piena di finestre spalancate sulla vita "normale", la sua, la nostra.

Le canzoni, il calcio, la televisione, quello che oggi si chiama genericamente "pop", erano per Edmondo materia di incessante curiosità, di partecipazione emotiva e razionale. Un intellettuale rigoroso che non diminuisce il suo calibro culturale solo perché la materia è vile e allegra, e parla di Mariolino Corso e di Pareto, dell'Equipe 84 e di Bauman, con lo stesso rispetto per i materiali della vita: questo era Edmondo Berselli, una smentita vivente della maniera appartata e schizzinosa con la quale il colto rischia sempre di guardare al "volgare". E al tempo stesso - e qui stava il difficile - uno che anche quando divagava lungo i margini più spensierati e leggeri della cultura di massa, non cadeva mai nel cosiddetto "cazzeggio", orrida parola che serve soprattutto a "prendere le distanze".
La distanza, per Edmondo, era sempre la stessa: le cose si guardano (tutte) perché ci stanno di fronte. Si deve "scendere verso terra e trovare le soluzioni lì dove le stai cercando, nei labirinti del quotidiano, tra le alternative intrinseche della realtà": così ha scritto nel suo ultimo libro, partorito già in malattia, sul suo cane Liù, riflessione intensa, divertente, gentile sui complicati rapporti tra i viventi, compresi quelli che per farsi capire possono solo abbaiare. Bene la teoria, bene conoscere i testi sacri e padroneggiare i classici: ma la realtà è solo "lì dove la stai cercando", "verso terra", ed è con il colossale groviglio della società di massa, è con il brulicare degli esseri viventi che ognuno di noi deve fare (umilmente) i suoi conti.

Quando lessi il suo libro (molto partecipe) sull'Emilia rossa, Quel gran pezzo dell'Emilia, gli feci notare, con scherzosa indignazione, che si era dimenticato di citare, nel suo enciclopedico percorso tra le persone e le cose della sua terra, la diva del cinema erotico soft Carmen Villani, che fu popolarissima verso la fine dei Settanta. Mi sembrò seriamente colpito da una chiosa così minima, e così poco nevralgica. Perché per lui il "pop" meritava lo stesso interesse di altre emerite rassegne di studiosi e di testi importanti. E molte delle sue energie, da adulto di successo, le ha dedicate all'inventario delle canzoni, alla critica televisiva, al racconto meditato dei suoi anni di formazione (gli anni del beat, i luminosi Sessanta non ancora incattiviti dall'ideologia), alla collaborazione teatrale con il suo amico Shel Shapiro, a un viaggio televisivo lungo i percorsi "padani" da restituire urgentemente a una memoria più serena e profonda, parlando più di Guareschi e Bertolucci, magari, che delle camicie verdi e degli ultimi ritrovati di una tradizione inventata.

Era un provinciale di mondo. Amava profondamente la sua Modena. Flessioni quasi impercettibili di quella parlata resistevano nella sua voce colta: no, non è necessario essere teatralmente, ruvidamente "indigeni" per avere una forte identità territoriale. Lo vidi l'ultima volta nella stazione di Brescello, il paese di don Camillo, per una chiacchierata televisiva su Guareschi e la sua Bassa, in un pomeriggio di novembre fradicio e freddo che più bassaiolo di così non si poteva. Non era mai invasivo, mai saccente, mai cattedratico, nei suoi confronti era difficile nutrire soggezione anche pensandolo direttore del Mulino, capo di un cenacolo tra i più autorevoli del Paese. Scriveva benissimo, una prosa ricca, allusiva, fulminante negli incisi, e se non tutti i savants diventano bravi giornalisti è probabilmente perché mancano della sua quasi infinita elasticità di pensiero, indispensabile per adattare all'uso quotidiano pensieri raccolti leggendo la saggistica pesante. Divagante, spiritoso, acuto, leggerlo non era mai un'esperienza scontata. In ogni editoriale, in ogni libro, si indovinava una diffidenza radicata verso l'eccesso di pathos, i sentimenti incontrollati. Non infiammabile, non infiammava mai: ragionava, con un piglio quasi anglosassone molto raro dalle nostre parti. Una "freddezza" continuamente corretta dallo humour, dall'intelligenza, dall'amore per la realtà.

Leggendo il suo Liù, che è quasi un testamento intellettuale, si capisce che molto del suo aplomb era dovuto a un profondo pudore. Il libro si chiude con una straordinaria mozione degli affetti, un lunghissimo elenco di amici e di luoghi, di persone e di città italiane, che adesso ci commuove profondamente. È un bell'elenco, in fin dei conti consolante, che racconta un'Italia migliore di come la pensiamo nel nostro ordinario malumore: sapeva vederla. Edmondo era un realista, ma non un pessimista. La fatica di capire, non certo la smania di giudicare, è stato il suo grande merito di intellettuale e di giornalista. Ci mancherà moltissimo, ci mancheranno i suoi nervi saldi, il suo rispetto per le piccole cose, la sua amicizia discreta, la misura di una scrittura che non si lascia mai sopraffare dalla realtà perché non la ripudia e non la bestemmia: la guarda, la vede, la accetta. Più difficile per noi accettare che Edmondo non ci sia più. Nel "labirinto del quotidiano", sapere che uno come lui stava cercando di orientarsi ci faceva sentire meno soli, e meglio accompagnati. Guardando una partita di calcio, ascoltando una canzone di Guccini o discettando sulla crisi della sinistra, continueremo a sentirlo nostro coetaneo, nostro amico, nostro compagno di viaggio.

12-04-2010 - La Repubblica

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