sabato 11 settembre 2010
Fabrizio ricorda Guido.
Ricordo bene la faccia di Guido Passalacqua, in un letto d' ospedale, il giorno che gli spararono alle gambe: gli occhialini sul nasone, lo sbalordimento perfino più forte della paura. Era il 7 maggio del 1980, e tre settimane più tardi quegli stessi della Brigata 28 Marzo avrebbero ammazzato Walter Tobagi, pensavano di dover "alzare il tiro" per farsi accettare nelle Brigate rosse. "Giornalista riformista", chiamarono Guido nel volantino di rivendicazione, che fecero trovare a noi della redazione milanese di Repubblica. Un insulto, per loro. Non certo per Guido, che alla stessa maniera di Tobagi era considerato un pericoloso nemico solo perché cercava di capire la follia di quegli anni. Faceva bene il suo mestiere di cronista, si studiava pagine di volantini e documenti, parlava con le persone, discuteva. Tanto bastava a quei disgraziati per condannarlo, ma tanto è bastato a Guido per tenere dritta la barra di una lunga carriera professionale: serietà, scrupolo, gusto del lavoro fatto bene, diffidenza verso le verità troppo facili, nessun cedimento al narcisismo. Niente di più e niente di meno di quel che serve a mantenersi onesti, e a farsi stimare. Aveva avuto una buonissima scuola nel Panorama di Lamberto Sechi, era transitato per l' avventura di Abc, e poi s' era imbarcato coi pochi che fecero Repubblica fin dall' inizio, 1976. La passione mai spenta per la politica (quella vera) l' aveva portato a scandagliare da vicino prima il calderone dei movimenti giovanili del ' 77, poi la stagione terrificante del terrorismo, il processo di Torino alle Br durante il sequestro Moro, e di lì in avanti il calvario dei morti ammazzati, l' inchiesta del 7 aprile sull' Autonomia. Anni di lavoro pesante (in tutti i sensi), su e giù per il Nord, fra questure, aule di tribunale, cancelli di fabbriche, marciapiedi insanguinati. Per un giornale giovane, che correva veloce e trovava un suo posto. Ci vollero le pallottole nelle gambe, per convincere Guido a fare un passo indietro da quel giro,e leccarsi le ferite, quelle fisiche e quelle psicologiche, che fanno parecchio più male. Una generazione di cronisti, a Repubblica, l' ha conosciuto poi come capocronista milanese, e numero due della redazione. Molti devono al suo puntiglio,e alle sue furibonde incazzature per ogni sciatteria, gran parte della loro formazione. Tutti quelli che l' hanno visto perdere le staffe per un pezzo malfatto, per una notizia imprecisa, ricordano poi la dolcezza e i sorrisi in cui quelle furie si stemperavano. Era un uomo profondamente buonoe mite. Ma sapeva pesare le persone, e dire ad alta voce i suoi disgusti per le piccole furbizie, per i mediocri cedimenti. Sono doti che Guido per anni ha mostrato anche come sindacalista nel comitato di redazione, combattivo ma in assoluta trasparenza. Nel 1985, a una conferenza stampa all' Hotel Cavalieri di Milano, si imbatté per la prima volta in un certo Umberto Bossi, che ancora non era parlamentare, e guidava una Lega considerata poco più che un fenomeno di pittoresco localismo. Da allora, Guido ha seguito passo per passo il fenomeno Lega, e ne è stato l' osservatore più attento. Non che fosse facile, e tanto meno scrivendo per un giornale "romano" come Repubblica. Di fatto, grazie alla comune passionaccia per la politica, Guido è stato sempre il giornalista più rispettato da Bossi, anche se giocava con una maglia "nemica". Quando poi è andato in pensione, poco più di due anni fa, Guido s' è tolto lo sfizio di scrivere il libro più documentato sulla storia della Lega, "Il vento della Padania". Io, che ero amico suo da ben prima della nascita di Repubblica, non mi sono mai stupito di questa sua passione per la Lega. Era la stessa curiosità di sempre, per quello che di nuovo si muove intorno, la stessa di quegli anni Settanta per i movimenti giovanili. Ideologia zero, molta voglia di capire. Gli devo molto, come tanti che l' hanno conosciuto. Mi mancheranno, comea tanti, la sua cocciutaggine, le discussioni sui libri che amava, il fumo della sua pipa, i suoi sorrisi di timido collerico. Ciao Guido, fratello maggiore.
Fabrizio Ravelli - La Repubblica - 10/09/2010
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento