mercoledì 8 settembre 2010

Il Washington Post cerca di spiegare perchè vanno tanto di moda i colonnini "tette e culi" dei siti giornalistici.



Riportiamo integralmente da Giornalettismo.com

Il Washington Post disegna uno scenario a tratti preoccupanti per il futuro della professione: fra media schiavi delle keywords e dei motori di ricerca, si perde la qualità del servizio?


Siamo schiavi dei box dove inserire i termini di ricerca. E’ lunga la riflessione di Howard Kurtz, blogger del Washington Post, sul giornalismo ai tempi di Internet 2.0, dove per arrivare al fruitore finale bisogna farsi largo fra una concorrenza grande come la rete: e per vincere, è essenziale riempire i propri prodotti di “quello che la gente vuole” in termini di parole chiave, ricerche su Google, in modo da intercettare almeno una parte del traffico del web che non dorme mai, a cui presentare il frutto del proprio lavoro.

PRO E CONTRO
– Un mestiere che, adesso come tempo fa, si muove su due binari: “Ci sono notizie che noi abbiamo, e che pensiamo che la gente debba leggere”, spiega Katharine Zaleski, produttrice esecutiva del Post, “perchè sono importanti e perchè vengono fuori dal nostro reporting. Ma dobbiamo anche essere molto attenti a ciò che la gente vuole e a ciò che sta cercando, e su cosa vuole più informazioni…se non facciamo questo, non stiamo facendo il nostro lavoro”. Un rischio da accettare, dunque, quello di diventare schiavi della popolarità e dei flussi sul Web, finanche l’eccesso di dover inserire, in ogni pezzo che si produce, qui con parole come “Bossi“, “Berlusconi“, “Marco Carta” e “Morgan“, per assicurarsi che una fetta di lettori che cercano quei contenuti, finiscano sul proprio prodotto. Certo, tutto questo ha anche un lato positivo: “Per la prima volta nella storia, i giornali non devono affidarsi su sondaggi e focus group, o sul mero intuito, per determinare un’offerta che possa essere popolare. Invece, gli editori sanno all’istante quanti clicks una storia, un’opinione o un blog totalizzano, e possono così aggiustare la propria strategia in maniera conseguente.

RISCHIO DI POPOLULISMO? – Certo, il rischio è quello di rimanerne schiavi. Ma, nota Kurtz, è sempre stato così, fin da quando “gli editori usavano i titoli urlati o riempivano i giornali di crimini sensazionali per far impennare le vendite in strada. Il Tabloid funziona sempre”. Tuttavia, “e non c’è scampo”, sottolinea Kurtz, “la nostra missione è quella di catturare una parte di quel traffico che potrebbe finire in centinaia di posti diversi, persino sui blog che copincollano il prodotto che tu hai appena ultimato. E se soddisfi il dio Google con le giuste keywords, avrai più visitatori”. Nonostante i rischi di populismo mediatico che questo comporta: anche perchè, conclude Kurtz, “grandi organizzazioni come il Post o il New York Times hanno una reputazione da difendere: alla lunga, puntare sempre sul sensazionalismo la diminuirebbe”. Insomma, la domanda è: chi fa giornalismo, lo fa in maniera peggiore solo perchè ha bisogno di dare più spazio alla fotogallery dell’ultima diva? La risposta, per lo staff di produzione del Washington Post, è nettissima: assolutamente no.

Nella foto: il colonnino "tette e culi" di Repubblica.it


Sempre sullo stesso argomento, Occam, ci segnala questo pezzo de La Stampa.

3 commenti:

Occam ha detto...

http://www.francoabruzzo.it/document.asp?DID=5449

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Mi sembra alquanto in tema
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Carmen ha detto...

Piuttosto inquietante, è l'estensione dell'Auditel agli altri media. Se uno pensa a come è ridotta la televisione...

aghost ha detto...

In medio stat virtus, dicevano gli antichi. I giornali non devono farsi "auditelizzare", ma neppure ignorare del tutto ciò che vuole il lettore.

Che poi è tutto da dimostrare che la gente voglia solo gossip, tette&culi e quizzoni. Questo è quel che pensano i caporioni della tv, ma più volte è stato dimostrato che se un programma è ben fatto il pubblico lo segue. Il pesce puzza dalla testa: penso che buona parte del degrado di giornali e tv dipenda in buona parte da chi li dirige. O no?