Dal Foglio di martedì 2 agosto 2011:
Avevamo bisogno di un avversario come D’Avanzo, è caduto combattendo
La morte precoce di un amico e quella di un avversario sono la stessa cosa, sono la fine di un legame. In tanti anni il lavoro giornalistico di Giuseppe D’Avanzo, sepolto a Roma dai suoi cari e da una comunità professionale e umana che molto lo amava, era diventato per alcuni di noi ciò che ami detestare. Scriveva piuttosto bene, si faceva leggere con i suoi scoop e le sue campagne, e questo lo rendeva ancora più irritante. Infinite le polemiche con questo giornale, con un tocco perfido ma a suo modo cavalleresco da parte sua. Destrutturare un pezzo d’accusa di quel cronista dalle fonti profonde, decostruirlo in termini di visione morale delle cose, di analisi politica, e in certi casi di controfattualità, era ormai un impegno di produzione perverso, ma necessario, della nostra fabbrichetta. Il tipo umano, appena sfiorato, non era malaccio, con il suo registro malinconico, i baffoni, gli occhi grandi, le fatiche e le spropositate passioni e faziosità civili.
Se il soldato D’Avanzo era contro Martelli per storielle di marijuana, l’istinto militare portava a difendere Martelli e perfino le sue stupide vacanze africane. Se era contro il generale Niccolò Pollari e con la Cia separata di Parigi contro la guerra di Bush Jr., pensavamo giusto opporgli le verità ufficiali e argomentate della Casa Bianca e del Senato americano, e chiedere a un disinvolto ma onesto servitore del doppio stato come Pio Pompa, da lui distrutto, di collaborare con noi, supremo sberleffo e atto dovuto. Se sbagliava gravemente sul caso Rostagno, con conseguenze penose per un sacco di gente buona, lo pizzicavamo con una certa voluttà a titolo di risarcimento per le sue vittime. Se si avventava su Berlusconi per i suoi cazzi privati, con effetti devastanti, parlavamo di pornogiornalismo e gli rivolgevamo contro l’accusa a lui cara di sexual addiction, dipendenza dal sesso. Su questi e cento altri dossier il buon cronista aveva dalla sua i fatti e le fonti, noi l’interpretazione politica e civile, l’opinione. Una perfetta separazione di fatti e opinioni, ma non nel senso immaginato dai maestri del giornalismo che si dice anglosassone ed è scritto nel più puro italiano delle guerre di parte.
E’ caduto da soldato, per un incidente cardiaco in perlustrazione in sella a una bicicletta, questo avversario di cui avevamo in qualche senso bisogno. Se il mondo fosse popolato solo dalle nostre passioni e dai nostri errori, sarebbe un incubo di noia, servono dannatamente anche le passioni e gli errori degli altri. In Giuseppe D’Avanzo niente era gratuito, accademico, formale, tutto era carnale e pazzescamente sentito in prima persona. Non è una questione di buona fede, non ci permetteremmo mai di offendere un collega attribuendogli buona coscienza. E’ una questione di vitalità, di pegni che si prendono e si lasciano nel percorso tortuoso e ambiguo che si inizia con la nascita e si chiude altrettanto a casaccio, scelti e incapaci di scegliere con tutta la nostra apparente libertà. Un giornalista che difende con cipiglio la sua ditta, che la sceglie per ragioni e per istinti di vita, non passa la sera a leggere Kant, non discetta, non fa lezioni; scuce balle e verità alle sue fonti, invece, e si legge tutte le carte, anche quelle che faranno da carburante alla macchina del fango.
Sapeva amare le cose belle, anche quando le trovava nel nostro cattivo giornale. Fu capace di fair play, e il colpo basso tutto sommato era l’eccezione professionale che confermava una regola umana e psicologica molto in disuso: rispettare il nemico. E’ stato triste apprendere in una banale sera di vacanza che un così ferrigno faticatore di un mestiere tanto controverso ed effimero aveva ceduto ed era morto d’improvviso a cinquantotto anni.
Giuliano Ferrara
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