Mi sarebbe piaciuto andare personalmente, ma impegni familiari me l'hanno impedito. E così affido alla penna del nostro amico Gabriele (blogorrea.it) il racconto del funerale di Giorgio Bocca. FS.
Se i funerali possono essere belli, quello di Giorgio Bocca è
stato un bel funerale. Pur non avendolo mai conosciuto (al massimo
l’avevo visto fare jogging su una strada di montagna, non lontano da
dove ho la mia baitella), andare a salutarlo era qualcosa che gli
dovevo, da persona formatasi su Repubblica e sui suoi articoli come lettore e non solo. Anche per vedere di nascosto l’effetto che fa.
Beh un effetto unico. Il vecchio
burbero è riuscito addirittura nell’impresa di far tacere i
molestissimi applausi – ripugnante, benché in buona fede, cedimento alla
società dello spettacolo e del rumore – che accompagnano l’uscita di qualunque bara dalla chiesa. Non più di tre persone
si sono lanciate in un timidissimo clap clap che gli altri presenti
hanno immediatamente zittito con occhiatacce e brontolii.
Certo, si è dovuto beccare un sermone in cui il prete
(pare amico di famiglia) è riuscito a dire: «Ha difeso la distinzione
fra fatti e opinioni». Questa è stata la prima frase che ho sentito
entrando in chiesa, ed era l’esatto contrario di quello che ha sempre
fatto lui, che nei suoi reportage ha sempre mescolato le due cose, con
arte e stile solido. Non distorceva i fatti, ma li leggeva a modo suo, dichiarandolo, come è giusto fare. Per onestà però il resto dell’omelia è stato molto più centrato. Ad esempio quando il don lo ha definito «partigiano della parola», frase perfetta per considerare anche la sua attività di comandante di divisione durante la Resistenza in Piemonte. E, partendo verso il forno crematorio di Lambrate, è stato un piacere – oltre all’abortito applauso – anche il Bella ciao intonato da gente dell’Anpi.
Non è stata una di quelle classiche cerimonie tutte esaltazione, giulebbe, epicedi ridicoli che dipingono il caro estinto come la fonte di ogni santità, ed è stato questo il bello. Sempre il prete
ha ammesso che «Ha commesso degli errori nella vita, le sue parole
sempre chiare a volte hanno avuto bisogno di ritrattazione, e nel tempo
ha anche cambiato idea ma mai per opportunismo. Non scriveva per adulare il suo interlocutore ma persino per ferirlo in modo da suscitare una reazione morale». O, per dirla con Umberto Eco, «era sempre incazzato, non era un personaggio conciliante».
Forse però si sarebbe fatto una risata anche il Bocca quando Natalia Aspesi, finito il suo
ricordo pubblico, scendendo dall’altare è inciampata in chissà cosa:
cadendo si è aggrappata alla tovaglietta, trascinandosi dietro coppe,
pissidi e altri ammenicoli da cerimonia, frantumando tutto in un crash
di cristalli. Ed è restata a pelle di leone per qualche secondo. Una scena un po’ imbarazzante, ma qualcuno ha abbozzato un sorriso, una volta capito che non si era fatta male.
Il pubblico era zeppo di celebrità. Che però erano lì in quanto amici veri, non per rappresentanza:
Ottavio e Rosita Missoni, Ezio Mauro, Ferruccio De Bortoli, Gad Lerner,
Giancarlo Caselli accanto a Marco Travaglio, Gianni Mura (che ha
ricordato come il suo
amico fosse un fantastico cuoco, «soprattutto di pesce, chi l’avrebbe
detto in un montanaro?»), Giulio Anselmi, Gian Antonio Stella, Piero
Colaprico, Nando Dalla Chiesa. Questi quelli che ho visto, almeno. Il popolo di Repubblica e di una certa Italia. Nessuna autorità con fasce tricolori né gonfaloni per esplicito desiderio della famiglia e quindi probabilmente del Bocca. Che, se ho capito il tipo,
sarà stato molto più contento della presenza di gente qualsiasi, i suoi
lettori. E di un tizio che era seduto accanto alla bara: Jess il Bandito, ovvero Arnaldo Gesmundo, uno dei componenti della banda che nel 1958 assaltò il furgone
portavalori di via Osoppo, uno dei colpi più famosi della storia della
criminalità nostrana, a suo modo un segnale che era iniziato il Boom italiano: «Mi ha scritto contro, duro, ma onesto, che ci posso fare, ero un rapinatore, e sono venuto per rendergli onore».
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