Ve ne anticipiamo un brano, il resto lo trovate sull'ultimo numero di E. Non fatevelo scappare.
Prima considerazione: è uno sport dell’altro mondo. Non è solo la lontananza dalle nostre abitudini, forse non è nemmeno giusto parlare di sport. È il corpo, l’uso del corpo, la sofferenza e la grazia del corpo. I piccolissimi ginnasti, le girandole umane, la sconciante fatica del nuoto sincronizzato che per regolamento bisogna cancellare a colpi di sorriso, i sollevatori di pesi che stanno allo sport professionistico come i minatori agli astronauti. Uno sport talmente povero, il sollevamento pesi, e giudicato così poco attraente sotto il profilo spettacolare che ogni tanto si sente parlare di una sua esclusione dal programma olimpico. Già: le Olimpiadi, i campionati del mondo, chissà se ci arriveranno mai questi atleti, in erba e maturi, dell’altro mondo. In senso geografico, ma soprattutto economico. Siamo abituati, dai nostri mezzi d’informazione, a considerare sport e spettacolo come gemelli siamesi che è meglio non separare. Perché uno spettacolo merita di essere visto e quindi di essere pagato. Qui comincia la distinzione non tanto tra dilettantismo e professionismo ma tra sportivi ricchi e sportivi poveri. Un ciclista dilettante olandese può star meglio di un marciatore professionista messicano. Poveri ma fieri sono gli sportivi che vediamo in queste pagine. A guardare con più attenzione, sono quasi sempre assenti gli attrezzi. È il corpo a essere attrezzo, motore. È la macchina umana. Lo sport moderno, riassumeva Gianni Brera, l’hanno inventato i nobili, i ricchi. Poi hanno scoperto che si faceva fatica e l’hanno lasciato ai poveri, come veicolo di promozione sociale.
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