giovedì 25 gennaio 2018

Extra-Post.

Riceviamo e volentieri pubblichiamo:

Ehi Pazzo, ma l'articolo di Carletti E' BELLISSIMO. Per favore, pubblicalo su PPR perché è da antologia. Grazie comunque di averlo linkato.

Annalisa C.

Detto, fatto. Buona lettura.



I CAVALIERI CHE FECERO L’IMPRESA E IL FINANZIERE CHE SI AUTOPROCLAMO’ FONDATORE

dalla pagina Facebook di Luigi Carletti

Capita di vedere i trailer di The Post, di leggerne la trama, e si sente l’amico o il collega dire: “Bello, ma è un film americano: la realtà è ben diversa. Specie in Italia”.
Già, specie in Italia.

C’è, nei confronti dei media, un disincanto che rasenta la sfiducia più completa e che elegge lo scetticismo come codice di decriptazione rispetto al messaggio che il giornalismo italiano offre di sé. Se il tal giornale sostiene quella posizione, è perché i suoi “padroni” hanno certamente degli interessi di un certo tipo. Questa è la generale chiave di lettura che accompagna il rapporto – sempre più tiepido – tra il lettorato italiano e i media del Paese, in particolare i quotidiani.

Repubblica e il Gruppo Espresso in questo avevano costruito una loro diversità. Perlomeno per molti dei loro lettori la “diversità” era il dato che orientava le scelte. Lettori che erano davvero tanti, e assai più trasversali (politicamente e non solo) di quanto sostenessero concorrenti e detrattori vari. Oggi di quel “pubblico” fedele e partecipativo, è rimasto uno zoccolo duro per il quale episodi come quello del recente scontro De Benedetti-Scalfari costituiscono degli autentici choc. Della serie: ma allora, che cosa resta del giornale che ci fece da bussola?

Il mio recente post sulle critiche di Carlo De Benedetti alla “sua” Repubblica e l’attacco a Eugenio Scalfari, ha suscitato tra molti miei amici e conoscenti una serie di reazioni davvero interessanti che mi dispiace non poter rendere note in quanto espresse, perlopiù, in forma privata: mail, messaggi, addirittura qualche telefonata.

Mentre in calce al post – e quindi pubblicamente – sono arrivati “like”, condivisioni e commenti positivi, privatamente i toni sono stati assai più “sfumati” (per usare un eufemismo). Potrei individuare il filo conduttore nello stupore. Lo stupore di chi, ancora oggi, considera Carlo De Benedetti un patrimonio della sinistra e del riformismo italiani: l’imprenditore illuminato punto di riferimento per tutto un mondo di intellettuali che – a torto o a ragione – ritiene di essere leadership del Paese migliore. E quindi, di fronte alle mie considerazioni sulle sue improbabili qualità di editore, grande sconcerto e pure alcune battute (abbastanza ovvie, peraltro) su mie improvvise simpatie per Berlusconi. Perché secondo molti, ovviamente, se critichi l’uno, significa che stai facendo il tifo per l’altro.

Sento di dovere a queste persone delle spiegazioni e so che questo prenderà un po’ di spazio, ma poiché questo spazio è personale e quindi non invado lo spazio di nessun altro, spero che chi mi ha espresso le sue perplessità, abbia la pazienza di leggere. Anche perché – lo dico senza alcuna presunzione – potrebbe cogliere qualche elemento utile a capire un po’ meglio quello che sta accadendo non solo nel Gruppo Espresso, ma nell’editoria italiana e più in generale nello scenario politico e culturale del Paese.

Sappiamo che De Benedetti ha criticato (duramente e pubblicamente) Eugenio Scalfari per la sua risposta a Giovanni Floris su “chi sceglierebbe tra Di Maio e Berlusconi”. Il fondatore di Repubblica ha risposto Berlusconi, e lì ovviamente è venuto giù il mondo. Personalmente è una risposta che avrei evitato in toto, ma questo conta zero. Quello che conta è come un’uscita apparentemente goffa e non ponderata (ma siamo sicuri che sia così?) sia stata trasformata da De Benedetti nello sfiatatoio di tutto il suo campionario di dubbi, perplessità, critiche, rancori e mal di pancia rispetto a Repubblica e a chi quotidianamente la produce. Quindi, allo sconcerto di chi aveva ascoltato il fondatore di Repubblica, si è sommato (moltiplicato per cento) lo sconcerto per le dichiarazioni di quello che viene ritenuto l’editore di Repubblica.

Ho tentato di spiegare che lo sconcerto è legittimo ma fino a un certo punto. E nel farlo ho provato a immaginare che cosa sarebbe successo con quello che fino a dieci anni fa è stato il vero editore del Gruppo Espresso-Repubblica: Carlo Caracciolo. L’uscita di Scalfari (criticabile quanto si vuole) sarebbe stata immediatamente trasformata in una strategia di attacco che di sicuro avrebbe riportato Repubblica al centro della scena politico-informativa. Così non è stato perché un editore, nel Gruppo Espresso, non c’è più da anni: ci sono dei manager che devono far tornare i conti in uno scenario oggettivamente sempre più difficile e c’è un imprenditore che – come lui stesso ha elegantemente ricordato – a suo tempo spese svariati miliardi (di lire) per acquisire il Gruppo Espresso. Lo fece non per mecenatismo, ma perché l’Espresso era un’azienda appetibile che guadagnava miliardi, e in più dava una visibilità assai rilevante.

Il Gruppo Espresso era stato fondato e costruito da un gruppo di uomini irripetibili. Come irripetibile è la generazione di cui essi facevano parte, quella degli ottantenni e ultraottantenni di oggi: i nostri genitori (o nonni), persone che vissero gli anni della Seconda Guerra Mondiale e della ricostruzione, con tutto quello che ne derivò. Persone con una struttura intellettuale, morale, caratteriale e perfino fisica, che oggi è già leggenda.

Caracciolo, Scalfari, Alessandrini, Massari, Lenzi, Carbone, Zanetti, Rubini e tutti gli altri, avevano attraversato quegli anni con il passo dei protagonisti e su ciascuno di loro si potrebbe scrivere un libro. Filippo Augusto Carbone, tanto per citarne uno, l’uomo che inventò la Manzoni Pubblicità (la cassaforte del Gruppo), scomparso a Torino pochi anni fa, fu un eroe della Resistenza e fu fucilato dai tedeschi, riemergendo ferito dal mucchio di cadaveri in cui era stato sepolto. Mario Lenzi, l’inventore dei quotidiani locali, a 16 anni guidò i partigiani alla liberazione di Livorno. Amedeo Massari, che non rinnegò mai le sue simpatie per il periodo fascista, fu l’amministratore che fece autentici miracoli per far nascere Repubblica (è quello alla sinistra di Scalfari, con gli occhiali spessi come fondi di bottiglia, nella storica fotografia del primo numero).

Quegli uomini, provenienti da esperienze diverse e tutte estremamente “formative”, si misero alle spalle il passato e lavorarono per il futuro. Lavorarono insieme, e costruirono il Gruppo Espresso chiamando con loro giornalisti, manager, tecnici e altre figure che ritennero all’altezza del compito. Quando uno di loro intercettava una notizia, chiamava il direttore della testata di riferimento e gli passava la “primizia” raccomandandogli di trattarla nella maniera più giusta: verifiche, obiettività nel racconto, ascolto di tutte le campane. Tanto per fare un esempio, se qualcuno di loro avesse saputo da un politico di una certa operazione riguardante il settore bancario, non avrebbe pensato a come farci soldi sopra. Avrebbe pensato semmai a come farla uscire sui suoi giornali verificandone l‘autenticità senza compromettere il rapporto con la fonte.

Dico questo perché nella trasmissione de La7 dell’altra sera in cui Carlo De Benedetti ha scudisciato ben bene Repubblica e il suo fondatore, gli è stato chiesto se davvero avesse usato la notizia riguardante la riforma delle Popolari per fare un’operazione finanziaria da cui avrebbe poi guadagnato una cifra piuttosto rilevante. Vicenda sulla quale c’è stata un’inchiesta e che probabilmente finirà per essere archiviata. Operazione quindi presumibilmente legittima, propria di un finanziere attento a tutte le opportunità del mercato. De Benedetti ha dato le sue spiegazioni ricordando come la notizia sulle Popolari fosse nota da tempo e certamente – sul piano del comportamento puramente finanziario – ha ragione lui.

Però il punto è: che cosa c’entra un finanziere che fiuta l’aria per fare trading con la gestione e lo sviluppo di un gruppo editoriale fondamentale per la tenuta democratica e morale di un Paese costantemente in equilibrio precario? Che cosa c’entra con i valori e gli orizzonti che i fondatori disegnarono e trasmisero ai loro collaboratori?
Qualcuno penserà che sono domande retoriche da romantici idealisti e ci riderà sopra. Ma l’essere (concretamente) romantici, idealisti e proiettati verso dei valori alti, è l’unico modo per fare davvero giornalismo e informazione. Un altro modo non c’è, perché altrimenti si fanno altri mestieri.

Nell’era in cui l’impresa riscopre l’etica e la social responsibility, l’editoria (impresa molto particolare) dovrebbe essere la locomotiva di questo movimento, perché senza etica l’informazione muore. Non è più credibile. Non ha più alcuna ragione per proporsi al mercato. Soprattutto oggi, dove le informazioni corrono viralmente da un capo all’altro del mondo. Senza i suoi valori fondamentali, l’informazione vale un social, o un post dell’ultima squinzia-blogger pagata un tanto a marchetta. Mortificare l’idea di un’informazione pulita significa ucciderla. Equivale, semplicemente, a suicidarsi. E’ come se l’industria dei cartoon facesse prostituire la Sirenetta o permettesse a Capitan Uncino di far fuori Peter Pan. Quel mondo finirebbe il giorno dopo, incenerito dai suoi stessi fedelissimi utenti!

L’editoria ha bisogno di un’idea romantica e moralmente alta perché questa è la sua unica possibilità per sopravvivere nell’era della digital disruption. Il suo unico marketing possibile è farsi percepire come diversa dal resto: un faro nel mare in tempesta.

Ecco perché un editore che sfrutta le sue brillanti intuizioni non per inventarsi qualcosa di editoriale, ma per fare soldi con i soldi, non è un editore. Fa un altro mestiere. Rispettabilissimo, probabilmente. Ma che con i giornali e con l’informazione non c’entra niente. De Benedetti spese “una paccata” di miliardi e si comprò l’azienda. Vero. E poi? Dopo la scomparsa di Caracciolo, quale è stato il suo contributo “da editore”? Quale sviluppo? Quali progetti? Abbiamo visto cessioni e chiusure, e molte stucchevoli autocelebrazioni, questo sì. Né fondatore né propulsore, a mio modestissimo avviso, s’intende. Proprietario e padrone, questo sì. E pazienza se lui non lo capisce e anzi, approfitta della ribalta tv per scaricare il suo risentimento nei confronti di un uomo come Scalfari che, invece, ha fatto la storia del giornalismo e dell’editoria. Scalfari e gli altri cavalieri che fecero l’impresa, cioè misero in piedi il Gruppo Espresso-Repubblica, non sono stati né santi né poeti, ma uomini legati a un’idea di giornalismo che inseguiva la verità. Nell’interesse più ampio possibile. Dispiace che tutto questo sfugga a giornalisti e intellettuali, probabilmente legati a un’immagine di imprenditore autoproclamatosi fondatore ed editore e poi smentito dalla storia. Smentito, soprattutto, dalle sue stesse azioni.

Luigi Carletti

2 commenti:

bob ha detto...

Scusate, chi è Carletti?

Enrico Maria Porro ha detto...

@bob https://it.m.wikipedia.org/wiki/Luigi_Carletti