La Voce del Padrone
Naturalmente, in tempi di pandemia, tanto più l'anno scorso di questi tempi, si può certamente dire che avevamo tutti ben altro per la testa che non le sorti di un giornale, per importante che fosse. Eppure ...
Più o meno a questa stessa ora, il 23 aprile dell'anno scorso, accendendo il pc, compariva, a caratteri molto grandi, la scritta "Carlo Verdelli non è più direttore di Repubblica".
In piena pandemia, sotto minaccia da mesi da parte di gruppi neofascisti tanto che gli era stata assegnata la scorta, e con gli attestati di solidarietà delle grandi firm del giornale ancora freschi di stampa (#iostoconverdelli) sul giornale del mattino, con un comunicato freddo e sintetico di ringraziamento veniva licenziato un grande giornalista che, in poco più di un anno, aveva restituito "voce" al giornale, aveva recuperato un bel po' di "firme" e collaboratori che lo avevano lasciato in precedenza per motivi vari, e lo aveva saldamente riposizionato al centro del panorama dell'informazione italiana, come punto di riferimento dell'opinione pubblica della sinistra liberale e progressista.
Non che non fosse nell'aria, da quando gli sciagurati De Benedetti junior ne avevano ceduto la proprietà all'erede di casa Agnelli, quel John Elkann che è la rappresentazione plastica del cinismo e dell'arroganza del capitalismo italiano, nella versione aggiornata che non ha affatto abbandonato i vecchi vizi nel mentre si lanciava in altre spregiudicate avventure di tipo nuovo nella economia e nella finanza globalizzata.
Personalmente, ancora studente dell'ultimo anno di giurisprudenza, e già lettore da alcuni anni dell'Espresso diretto dal grande Livio Zanetti, il 14 gennaio del 1976 acquistai il primo numero di quel quotidiano generato da una costola del settimanale, che mi è rimasto attaccato in mano fino, appunto, al 23 aprile dell'anno scorso.
Sotto la direzione di un personaggio che viene da un altro mondo e da un'altra cultura, Maurizio Molinari, nel giro di pochissimo tempo il giornale si è spostato su posizioni moderate e "centriste", generando per di più, appartenendo con "La Stampa" allo stesso padrone, una concentrazione editoriale senza precedenti del tutto analoga a quella targata Fininvest di quel Silvio Berlusconi contro il quale, e contro il suo macroscopico conflitto di interessi, aveva condotto, sotto le direzioni di Eugenio Scalfari e Ezio Mauro, una battaglia senza quartiere per oltre vent'anni.
Via, in rapida successione, Gad Lerner, Pino Corrias, Enrico Deaglio, Bernardo Valli, Roberto Saviano, Attilio Bolzoni, Luca Bottura, Stefano Benni e altri ancora, senza che si facesse nulla per trattenerli, nel mentre comparivano sul giornale firme che, come il nuovo direttore, venivano da tutt'altri mondi e tutt'altre culture.
Del giornale che fu, Repubblica non ha più nemmeno l'ombra, è oggi un giornale insipido, scialbo, anche nella veste grafica dimessa e grigia, senza voce, che al pari di chi lo dirige, bisbiglia, e che si rivolge, senza grandi successi, come si vede dal crollo di vendite, ad un segmento di opinione pubblica che ha già, da sempre, i suoi punti di riferimento ben radicati altrove.
In tanti anni, non sempre ho condiviso le posizioni di Scalfari, ma sul giornale scriveva tantissima altra gente che ne facevano il punto di incontro perfetto tra l'opinione pubblica progressista e la parte migliore dell'establishment industriale del Paese.
Comunque un punto di riferimento, che ci ha accompagnati, me come tantissimi altri che lo hanno abbandonato al suo destino, per quattro decenni.
Ma in fondo, il destino del giornale che fu, è identico a quello della sinistra italiana, e, a conti fatti, la sua grande avventura è durata anche troppo, "dati causa e pretesto."
Nicola Purgato
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