lunedì 4 febbraio 2008

Le confessioni linguistico-amorose di Enrico Franceschini.

Racconta Enrico Franceschini:

Lo so, l’etica professionale vorrebbe che un giornalista non facesse pubblicità a un’iniziativa promozionale del proprio giornale. Ma è più forte di me. Leggere gli slogan con cui “Repubblica” presenta ai lettori il suo corso multimediale di inglese mi ha fatto venire un tuffo al cuore. Un brivido di nostalgia. “The cat is black”. Oppure: “The book is on the table”. O anche: “The house is beatiful”. E così via, per dimostrare la distanza siderale che corre tra l’inglese scolastico appreso da ragazzi alle medie (inferiori o superiori, fa poca differenza), e l’inglese necessario a cavarsela almeno un po’ nel mondo d’oggi, in vacanza, per lavoro, navigando su Internet. Ebbene, quelle frasette insulse erano più o meno tutto ciò che sapevo dire io, in inglese, quando nel 1980 sbarcai a New York, deciso a trovare il mio destino.

“The cat is under the table. The cat is not on the table. Is the cat on the table? No, it isn’t. Is the cat under the table? Yes, it is”. Avessi aspirato a fare il veterinario, il mio limitato frasario nella lingua di Shakespeare sarebbe forse stato di qualche utilità. Ma poichè sognavo di fare il giornalista, parlare con i newyorchesi del gatto ”under” il tavolo non avrebbe fatto fare grandi passi avanti alla mia carriera di corrispondente dall’estero.

Voglio specificare un cosa. Quelle espressioni sul gatto, e poche altre, le avevo imparate a scuola. Otto anni di inglese tra medie inferiori e superiori non erano serviti a molto, ahimè, nel mio caso. Ma non per colpa delle mie insegnanti, che ce la mettevano tutta e mi erano anche piuttosto simpatiche. No, la colpa era casomai del metodo, poco adatto a inculcare nella testa di un adolescente l’inglese colloquiale. Ed era soprattutto colpa mia: ero negato per le lingue straniere e in più non studiavo un tubo, un’accoppiata senza speranze.

Come m’avrebbe fatto comodo, un corso multimediale come questo di “Repubblica”, quando arrivai a New York cercando di improvvisarmi giornalista free-lance, ovvero senza un impiego fisso. In mancanza d’altro, m’ingegnavo come potevo. Se ad esempio dovevo fare un’intervista telefonica, dopo che il mio interlocutore aveva risposto a una domanda, io ripetevo per filo e per segno tutto quello che lui (o lei), secondo me, aveva appena detto, per esser certo di avere capito bene. L’effetto di questa tecnica, tuttavia, era comico, perchè dal tono sorpreso dell’interlocutore (più che dalle sue parole, che comprendevo poco), mi sembrava di capire che non avesse affatto detto quello che io gli avevo appena ripetuto. “Cioè lei intende dire che Ronald Reagan non le piace per niente?”, ripetevo ad esempio io (nel mio stentato inglese) dopo avere ascoltato la sua risposta.
E quello, incredulo o irritato a seconda dei tipi: “What the *x?*x! are you saying??!!”, o qualcosa di simile.

L’intervista, poi, la scrivevo lo stesso, ma non facevo grandi progressi con la lingua. Avevo bisogno di una soluzione radicale e, fortunatamente, un giorno la trovai: m’innamorai di un’americana, ci sposammo e in poco tempo imparai l’inglese come mai avrei immaginato di poterlo imparare. Il matrimonio, dopo qualche anno, purtroppo naufragò. Ma l’inglese non lo dimenticai più, e la buona conoscenza della lingua mi aiutò a essere assunto da “Repubblica”, qualche tempo dopo, come corrispondente da New York. Avevo trovato il mio destino, dunque. Avevo realizzato il mio sogno, finalmente.
Senonchè, nel 1990, il fondatore e allora direttore di “Repubblica” Eugenio Scalfari mi chiese di trasferirmi dagli Stati Uniti a Mosca. Era chiaro cosa significava: dovevo imparare il russo. Indovinate come ho fatto.
(Enrico Franceschini)

Si ringrazia Fabio P.

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