mercoledì 25 giugno 2008
Milan Kundera in prima su Repubblica: solo noi ce l'abbiamo.
Vi proponiamo la versione integrale del pezzo apparso oggi in prima pagina a firma di Milan Kundera:
Praga 68. La settimana che ci cambiò per sempre (di Milan Kundera)
“Ci sono paesi che vantano le loro conquiste e paesi che invece possono vantarsi per non aver mai conquistato niente e nessuno” Era il 24 agosto ed ero a casa del padre di un mio amico. Da lontano si sentiva sparare, sul tavolo c´era una radiolina accesa; e io guardavo distrattamente l´antica biblioteca di casa, finché alla fine ho tirato fuori un libro scritto nel 1633 da Pavel Stránsky: Sullo Stato ceco. E ho letto: «Se si domanda a un esperto di questioni ceche se i paesi cechi siano un alleato per scelta contrattuale dell´impero tedesco, oppure un paese feudale e vassallo, egli sosterrà con fermezza che i paesi cechi sono amici dei tedeschi, uniti a loro da antichissima alleanza, più che loro servitori o protetti». (…)
Gli spari oltre le finestre riportavano la mia attenzione al momento presente, mentre le frasi di Pavel Stránsky mi sospingevano tra le braccia della storia ceca, riportandomi alla sua infinita lontananza, avvertendomi però che continuiamo a vivere sempre la stessa storia nazionale, con la sua «eterna» problematica, con l´incessante conflitto tra alleanza e sovranità, con una sovranità ricercata costantemente e non raggiunta e la lotta continua per ottenerla, e che quindi i colpi che sentivo non erano solo un fulmine a ciel sereno, uno choc, un´assurdità: in essi non faceva altro che realizzarsi, ancora una volta, l´antichissimo destino ceco. (…)
Quest´agosto ha gettato una luce nuova su tutta la nostra storia. Non che lo scetticismo sul carattere ceco sia venuto meno, ma è stato integrato da un altro punto di vista, di segno opposto: sì, la nazione ceca ha oramai perduto la continuità diretta con l´eroica tradizione della mazza ferrata di Zizka ma, oltre a questo, l´hussitismo sta a significare che la tradizione di un popolo nel quale «ogni vecchietta conosce le Sacre Scritture meglio di un prete italiano» è di casa ancora oggi, e questa tradizione, da noi, vuol dire istruzione e spirito riflessivo.
Sì, il risorgimento ceco, invece della grande politica, ha conosciuto solo la spicciola educazione popolare; per esso l´arma principale della lotta nazionale erano il teatro amatoriale, le canzoni e i versi; sì, l´arte ceca è stata aggiogata al carro traballante dell´educazione nazionale, ma è anche vero che in questo modo il popolo ceco, fin dall´inizio della sua nuova esistenza, è stato legato alla cultura in modo fatale come pochi popoli europei, tanto che in questa metà dell´Europa è il popolo di gran lunga più pensante e istruito che non si lascia infinocchiare da nessuna propaganda da quattro soldi.
Sì, è vero che la nazione ceca nel secolo scorso è rimasta ai margini dei grandi conflitti europei; ma è vero pure che a quel tempo è riuscita a fare una cosa enorme: da popolazione semianalfabeta, seminazionalizzata, si è trasformata di nuovo in nazione europea, e contro i tentativi continui di germanizzazione, contro le intenzioni del potere cui era sottomessa, da allora è capace di dare il meglio di sé proprio quando i tempi sono più sfavorevoli.
Sì, è vero che la nazione ceca non si distingue per eroico spirito romantico, ma è vero pure che il rovescio di questa mancanza di romanticismo e di eroismo consiste nella sobrietà intellettuale, nel senso dell´umorismo e nello spirito critico con cui essa guarda anche a se stessa, tanto da essere una delle nazioni meno scioviniste d´Europa. Se il suo orgoglio nazionale si solleva sdegnato, vuol dire che ha subito un´offesa terribile; vuol dire che la sua indignazione non è fugace e di breve durata, ma caparbia come può esserlo solo l´intelletto.
Vedo la mansarda di un palazzetto parigino, sento la voce di Aragon piena di rabbia, una voce che maledice il sopruso; vedo la faccia di Aragon piena di angoscia per i destini del mio paese e sento poi le mie parole che ripetono più volte: «È stata la settimana più bella che abbiamo mai vissuto». Ho paura che questa affermazione a Parigi sia risuonata assurda e strana, ma i miei compatrioti mi capiranno. E stata infatti una settimana in cui la nazione ha visto all´improvviso la propria grandezza, una grandezza nella quale ormai non sperava proprio più.
Mi viene in mente, ripensando a Parigi, una piccola trattoria nel quartiere latino, dove ho pranzato con Carlos Fuentes, ottimo scrittore messicano, mio coetaneo. Fuentes mi ha chiesto se sapevo che i cechi in Messico sono guardati con molta simpatia. Mi ha poi raccontato che, alla metà del secolo scorso, tre potenze europee, che non gradivano la politica liberale del presidente Juárez, inviarono in Messico degli eserciti di occupazione, e che i reparti cechi che vi arrivarono con l´esercito austriaco si rifiutarono di partecipare all´occupazione di un paese progressista. Molti cechi restarono in Messico e poiché tra loro c´erano parecchi musicisti, la vita musicale messicana si arricchì tanto che il loro ricordo è ancora oggi circondato dalla gloria.
Perché c´è la gloria dei conquistatori e c´è la gloria di quelli che, nella loro storia, conquistatori non sono mai stati. C´è la superbia delle nazioni che si gloriano delle campagne dei loro Napoleoni e dei loro Suvorov e c´è l´orgoglio delle nazioni che non hanno mai esportato quella brutalità. C´è la mentalità delle superpotenze e c´è la mentalità delle piccole nazioni. Una grande nazione vede la propria esistenza e la propria importanza internazionale garantite automaticamente dal semplice numero dei suoi abitanti. Una grande nazione non si tormenta interrogandosi sul motivo e sulla legittimità della propria esistenza: c´è e continua ad esserci con un´ovvietà schiacciante. Si fonda sulla propria grandezza e non di rado se ne inebria come se fosse di per sé un valore.
Invece una piccola nazione, se ha una qualche importanza nel mondo, deve ricrearla ogni giorno e senza sosta. Nel momento in cui smette di creare valori, perde la legittimità della propria esistenza e alla fine, forse, cesserà anche di esistere perché è fragile e può essere distrutta. In essa, la creazione di valori è legata alla questione dell´esistenza, e questo probabilmente è il motivo per cui la creazione (culturale ed economica), di solito, nelle piccole nazioni (forse a partire già dalle antiche città greche) è molto più intensa che nei grandi imperi.
La coscienza della grandezza, della quantità, dell´indistruttibilità, permea interamente i sentimenti delle grandi nazioni: tutte hanno dentro di sé un frammento di quella «superbia della quantità», tutte hanno la tendenza a vedere nella propria grandezza una predestinazione alla salvezza del mondo, tutte sono inclini a scambiare se stesse per il mondo, la propria cultura per la cultura del mondo, e perciò, di solito, sono estroverse in politica (orientate verso le lontane sfere della loro influenza), ma al tempo stesso molto egocentriche per quanto riguarda la cultura. Ah, povere grandi nazioni! La porta che si apre sull´umanità è angusta e voi ci passate a stento.
Credo nella grande missione storica delle piccole nazioni nel mondo di oggi, lasciato in balìa di superpotenze che desiderano allinearlo e livellarlo a propria misura. Le piccole nazioni, ricercando e costruendo continuamente la propria fisionomia, lottando per le proprie peculiarità, si preoccupano nello stesso tempo che l´intero globo terrestre resista ai terribili influssi all´uniformità, che risplenda la varietà delle tradizioni e dei modi di vivere, che in esso l´individualità umana, il miracoloso e la singolarità possano essere di casa.
Sì, sono convinto della missione delle piccole nazioni. Sono convinto che un mondo in cui la voce dei guatemaltechi, degli estoni, dei vietnamiti o dei danesi venisse sentita quanto quella degli americani, dei cinesi o dei russi, sarebbe un mondo migliore e meno triste. So pure, però, che per le piccole nazioni è insidioso e difficile. Hanno i loro periodi di letargo e, a differenza delle grandi nazioni, ogni loro assopimento comporta il pericolo di non risvegliarsi. Il pensiero che anche la nazione ceca stesse di nuovo decidendo se vivere o tirare a campare, se essere o non essere, mi si è imposto fastidiosamente anni fa, quando mi sono reso conto di come una politica poco illuminata soffocasse la vita ceca e facesse precipitare la cultura ceca al livello insignificante di una provincia europea. Mi è tornata in mente l´acuta domanda di Schauer: ma è propria valsa la pena di ricollocare la nostra piccola nazione al centro dell´Europa? Quali valori apporta e intende apportare all´umanità?
Quando ho pronunciato questa domanda, nell´estate del 1967, dalla tribuna del Congresso degli Scrittori, non immaginavo con quale drammaticità le avrebbe risposto l´intera Cecoslovacchia l´anno seguente. Il tentativo di creare finalmente (e per la prima volta nella sua storia mondiale) un socialismo privo dell´onnipotenza della polizia segreta, con la libertà della parola scritta e parlata, con un´opinione pubblica che viene ascoltata e con una politica che si appoggia ad essa, con una cultura moderna che si sviluppa liberamente e con uomini finalmente liberi dalla paura, è stato un tentativo con cui i cechi e gli slovacchi per la prima volta dalla fine del Medioevo si sono posti di nuovo al centro della storia e hanno rivolto al mondo il loro appello.
Questo appello non si fondava su una presunta volontà dei cecoslovacchi di sostituire il modello di socialismo esistente con un altro modello altrettanto autoritario ed esportabile. Un messianismo del genere è estraneo alla mentalità di una piccola nazione. Il senso dell´appello cecoslovacco stava in qualcos´altro: mostrare quali immense potenzialità democratiche siano tuttora trascurate nel progetto sociale socialista, e mostrare che queste potenzialità si possono sviluppare solo se si libera pienamente l´originalità politica di ogni singola nazione.
L´appello cecoslovacco continua ad essere valido. Senza di esso il XX secolo non sarebbe più il XX secolo. Senza di esso il mondo di domani sarebbe un mondo diverso da quello che sarà. Il significato della nuova politica cecoslovacca aveva una portata troppo grande per non incontrare resistenze. Il conflitto, naturalmente, è stato più duro di quanto immaginassimo, e la prova attraverso cui è passata la nuova politica è stata atroce. Ma io mi rifiuto di chiamarla una catastrofe nazionale, come adesso fa comunemente la nostra opinione pubblica, piuttosto lamentosa. Oso addirittura dire, a dispetto dell´opinione corrente, che forse il significato dell´Autunno cecoslovacco è perfino superiore al significato della Primavera cecoslovacca.
È successo infatti qualcosa che nessuno si aspettava: la nuova politica ha retto al terribile conflitto. Ha fatto un passo indietro, è vero, ma non si è disgregata. Non ha ripristinato il regime poliziesco; non ha accettato l´incatenamento dottrinario della vita intellettuale, non ha rinnegato se stessa, non ha tradito i propri princìpi, non ha perduto i propri uomini; non solo non ha perduto il sostegno dell´opinione pubblica, ma, proprio nel momento in cui c´era un pericolo mortale, ha cementato dietro di sé l´intera nazione, in quanto era interiormente più forte di quanto non fosse prima di agosto. E ancora: se i suoi rappresentanti politici devono contare sulle possibilità che al momento ci sono, vasti strati della nazione, specialmente i giovani, conservano dentro di sé, in tutta la loro intransigente interezza, la coscienza degli obiettivi di prima di agosto. E c´è in questo una speranza immensa per il futuro. E non per quello remoto, ma per quello prossimo.
Ma che cosa succederà se la nuova politica continuerà a fare passi indietro, fino a diventare, senza che neppure ce ne accorgiamo, una politica vecchia? Che cosa succederà se la dichiarata provvisorietà del passo indietro diventerà una provvisorietà di decine di anni? È evidente che non è garantito da nessuna parte che il 1968 in futuro non verrà rovinato e vanificato. Ma una persona o, in generale, l´umanità hanno mai avuto garanzie? Ha mai avuto garanzie la nazione ceca, condannata, per ricordare ancora Pavel Stránsky, a vivere in amicizia con il leone? Non sono forse secoli che essa cammina sull´incerta passerella tra sovranità e sottomissione, tra universalità e provincialismo, tra l´essere e il non essere? (…)
Quando, all´inizio di settembre, il quintetto dei nostri uomini di Stato ha emesso un comunicato nel quale si invitavano i cecoslovacchi all´estero a ritornare, garantendo loro completa sicurezza, ho sentito da alcuni l´obiezione: ma come pensano di garantire la nostra sicurezza, se non sono in grado di garantire neppure la loro?
Non condanno nessuno di coloro che hanno deciso di vivere all´estero, sostengo che ciascuno ha il diritto di vivere dove vuole, protesto solo nei confronti di questa argomentazione, che manca di qualsiasi nobiltà: davvero un cittadino ceco non è in grado di rischiare quello che rischia un suo uomo di Stato? Davvero è capace di vivere solo al di fuori del rischio? La misura di una relativa certezza per tutti non dipende forse proprio da quante persone hanno il coraggio di restare al proprio posto nell´incertezza?
Nel patriottismo ceco ho sempre ammirato la sobrietà dello sguardo. Già i patrioti risorgimentali si rendevano conto di tutto lo svantaggio che derivava dal destino di essere ceco, e capivano che il risveglio della nazione ceca non era solo un compito, ma anche un problema. Il più grande patriota ceco, Masaryk, iniziò il suo percorso distruggendo le illusioni e i miti patriottici, ed è significativo che abbia intitolato il suo libro La questione ceca. Alle radici del patriottismo ceco non c´è il fanatismo, ma lo spirito critico, ed è questo che ammiro della mia nazione e che me la fa amare.
Solo che lo spirito critico ceco oggi ha due forme. In una, diventa un vizio che rifiuta qualunque speranza e approva tutte le disperazioni: è lo spirito dei deboli degenerato in puro e semplice pessimismo che costituisce il clima ideale per preparare la sconfitta.
C´è poi il vero spirito critico, che sa smascherare le illusioni e le presunte certezze, ma al tempo stesso ha un´estrema sicurezza di sé, perché sa di essere una forza, un valore, un potere su cui si può costruire il futuro. Questo senso critico, che prima ha suscitato la Primavera cecoslovacca e poi in Autunno ha resistito agli attacchi delle menzogne e dell´irrazionalità, non è la proprietà di un´élite ma, come si è dimostrato, è la più grande virtù di tutta la nazione. Una nazione che ha questo dono ha tutto il diritto di entrare nelle incertezze del prossimo anno con piena fiducia in se stessa. Alla fine del 1968, ne ha diritto più che mai.
Milan Kundera, Copyright Literární Noviny e, per la traduzione italiana, Lettera Internazionale
Traduzione dal ceco di Dario Massimi
Fonte: La Repubblica
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1 commento:
Milan Kundera? Ma se tifi Inter! Scherzo, in realtà è un bel pezzo davvero
Lele, Milano
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