giovedì 22 ottobre 2009

Lungo, ma ne vale la pena.



Su proposta di Barbapapà (il collaboratore di PPR, non il fondatore di Repubblica) pubblichiamo per intero il difficilissimo ma superlativo pezzo di Adriano Sofri apparso oggi su Repubblica sul tema della terzietà.

L'illusione dei terzisti - di Adriano Sofri

Sulla scia della polemica con Repubblica, il Corriere della Sera ha ospitato una sequenza di autorevoli interventi tesi ad argomentare le virtù di moderazione e mediazione. Ne citerò qualche brano, ma vorrei subito esprimere una perplessità di fronte alla metodica lode della via di mezzo. Essa sembra persuasa che l’attaccamento alla misura, e rispettivamente all’ “estremismo” e alla “faziosità” –ovvero all’intransigenza e alla radicalità, nella versione della difesa- contrassegni una volta per tutte individui e partiti e giornali, come una specie di carattere ereditario, piuttosto che mutare col mutare delle circostanze e dei contesti. Tutti moderati terzisti al Corriere, tutti faziosi neogiacobini a Repubblica, tutti odiatori estremisti in qualche altra redazione. Mi pare che così si afferri solo una piccola parte della realtà. Non solo perché esistono faziosità di centro ed estremismi senili eccetera, ma perché si cristallizzano dei relativi atteggiamenti umani e politici in categorie psicologiche, in una metafisica della terza via. Lo scivolamento è implicito nella classificazione di Angelo Panebianco: “Sono tre i tipi umani che più frequentemente si incontrano /nella minoranza interessata attivamente alla politica/: l’estremista, il fazioso, il pluralista”. Esiste, per fortuna, anche il tipo umano che fa dipendere la propria scelta civile e politica dalla situazione che si trova ad affrontare. Perfino Gandhi, che propugnava la nonviolenza come risorsa dei forti, preferiva la ribellione violenta piuttosto che la viltà. Se è così, la questione non può che essere riportata, dal catalogo delle categorie di tipi umani, al confronto sulla concreta situazione civile italiana, che è stato ridotto a un ennesimo rimando alla maneggevole nozione di regime.
Succede di adattare il proprio atteggiamento al variare delle circostanze, e anche di mutar carattere nel corso del tempo. Attingo alla mia esperienza: ho avuto, non solo per impazienza giovanile, una predilezione per la rottura, e l’ho mutata poi, sicchè quello che all’ansia di un mondo nuovo appariva detestabile, l’Italia centrale e i ceti medi e ogni clima temperato, si mostrava ora come un riparo al peggio. Una conversione dal chiodo al nodo. Il nodo, nella sua paziente duttilità e reversibilità, mi sembrava ora l’alternativa alla forzatura virile del chiodo. E tuttavia la conversione, anche la più sentita, non basta a orientare una volta per tutte l’esistenza. La predilezione per la medicina preventiva e il ripudio dell’armamentario chirurgico della politica (la rivoluzione levatrice della storia, il forcipe che dà alla luce l’uomo nuovo...) non mi ha esonerato dal diventare oggetto di una chirurgia spericolata, e di doverle il mio tempo supplementare. Immagino che tanti possano ricapitolare vicende analoghe. Se restassimo al luogo comune della perenne Italia di guelfi e ghibellini, concluderemmo che la polemica di questi giorni non è che la prosecuzione di quella fra la fermezza e la trattativa sul sequestro di Moro. Non è così. Nè gli schieramenti di oggi riproducono la contrapposizione di allora, né le posizioni di allora sono uscite indenni dalla lezione del tempo. Era vero che fermezza e trattativa corrispondessero in una certa misura a dei “tipi umani” della commedia italiana –la corazza statalista del Pci che soverchiò l’amalgama di duttilità umana e quieto vivere democristiano- ma non si trattò solo di quello, e ciascuno fu davvero messo di fronte a un lacerante problema di coscienza. Succede oggi: finora, per fortuna –la chiamo fortuna per brevità- senza una precipitazione tragica. E anche per questa eventualità non si sa che evocare il fantasma degli anni ’70, ai quali niente dell’anno corrente assomiglia: senza che constatarlo serva a rassicurare, perché odio e stragi e agguati sanno trovarsi una strada in qualunque decennio senza bisogno di emulare o parodiare altre violenze e altri odii.
Anche nello spiritismo sugli anni ’70, ciascuno fa ballare il tavolino dalla propria parte: paventando un reinizio di terrorismo privato o di stragi di Stato. E’ sconveniente dire in pubblico che la sera della sentenza della Corte Costituzionale non pochi italiani di una certa età, un po’ per scherzo un po’ per scaramanzia, si sono detti che era una di quelle antiche notti in cui andare a dormire fuori di casa? Pazzia, dite? Può darsi: per ora l’Italia è un posto in cui il capo del governo attacca la Corte suprema e il Presidente della Repubblica che non l’ha messa in riga, in cui ministri denunciano un golpe di sinistra in corso e altri ministri annunciano l’ira vendicatrice della piazza, e simili escandescenze centroamericane passano come eccessi verbali, intemperanze gravi ma non serie, al solito. Salvo che si decida di prendere sul serio le cose gravi. La parola rivoluzione è ormai patrimonio di Berlusconi. C’è un dualismo di potere ribaltato secondo Berlusconi: il suo –“l’unico eletto direttamente dal popolo”- contro l’altro, quello delle istituzioni, privo dell’investitura elettiva, e inquinato dalla faziosità rossa. La rivoluzione incaricata di sciogliere il conflitto è affare del governo. Non siamo nemmeno più all’opposizione fra capitale morale milanese e capitale del malaffare romano, né alla mira di Berlusconi per il Quirinale, cui se non altro il famoso “sputtanamento” ha accidentato il cammino: caso mai, come nelle rivoluzioni da manuale, alla sfida fra due Palazzi, il Quirinale da svuotare di prestigio e inquilino, e palazzo Chigi da investire del potere pieno presidenzialista. Ora, in qualunque modo ci si balocchi con la parola regime, un quadro simile, ammesso che non venga negato per opportunismo o per assuefazione, complica l’intenzione di “avere sempre a cuore una cultura di terzietà”, cara a Giuseppe De Rita. Come io col nodo, e lui senza nemmeno bisogno di conversioni, De Rita dichiara che “fare oggi politica è mestiere da tessitore, di chi lavora sul rovescio della stoffa, tirandone via via i fili e capendone via via il senso”. Infatti: purché altri non abbiano tagliato corto. C’è oggi un’Italia del nord leghista e secessionista-annessionista che colonizza il Pdl, e un’Italia del sud vastamente infeudata alla malavita: e in mezzo un’Italia del centro sempre più stretta fra quei due estremi. Nemmeno un paesaggio jugoslavo è escluso da questa mappa che scherza con le ronde e il federalismo ad usum delphini. Da tempo, la domanda vera non è quella, esorcistica, “Dove andremo a finire?”, ma l’altra: “Dove siamo andati a finire?”. La terza via è un tentativo coraggioso e degno all’andata, quando si stia andando a parare malamente –lo fu perfino l’Internazionale Due e Mezzo, quando la parola d’ordine fanatica era la Scissione a oltranza. La terza via è invece un inciampo al ritorno, quando ci si ritira da un fallimento e non lo si sa riconoscere, e si preferiscono gli infiniti aggiustamenti della riconversione alla conversione necessaria e possibile. Fu così per la terza via berlingueriana, un aggrapparsi a un filo d’erba mentre si rotolava giù. La terza via di oggi si illude di distinguersi grazie a un tratto dialogante, se non irenico (aggettivo evocato da Andrea Riccardi, che se ne scusa: ma sarebbe bello) contro l’attitudine alla demonizzazione e al malaugurio. Quando sia possibile, una soluzione terza è benvenuta. Perfino l’apologia di una “zona grigia”, inaccettabile quando venne avanzata per una dose modica di tortura, è plausibile quando miri a sventare la nutrizione forzata per legge. Ma i comportamenti di Berlusconi e della sua corte hanno provocato una ulteriore degradazione dello spirito pubblico, della selezione alla rovescia della classe politica, del discredito delle istituzioni e della derisione dell’Italia nel mondo –e non perché vi si soffra di una dittatura birmana o di una persecuzione delle opinioni iraniana, ma perché vi si deforma caricaturalmente la democrazia. Scrive Panebianco: “La democrazia è un regime moderato. Ha bisogno che a guidare i governi siano sempre forze moderate, di destra o di sinistra, e che le componenti estre¬miste siano tenute a ba¬da”. Appunto. Chi ritenga che serenità e lucidità di giudizio consistano in un’equidistanza fra il governo e i suoi presunti “nemici politici ed editoriali” s’inganna, e inganna se stesso.

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8 commenti:

victor ha detto...

L'analisi di Sofri non fa una grinza. Ma soprattutto, a proposito di terzietà: c'era un passaggio vero, nelle repliche di De Bortoli a Scalfari. E' vero che i primi a scrivere dello scandalo delle escort a palazzo Grazioli sono stati quelli del Corriere. E' vero, in senso lato, che Repubblica ha imbastito una campagna su uno scoop altrui. E forse è pure vero che a Rep avevano la notizia e non l'hanno data subito. C'è una cosa, però, che De Bortoli omette di segnalare, e cioè "come" la notizia è stata data, e (ancora) cioè abbinata a qualche allusione alla frase di D'Alema sulle spallate in arrivo per il governo. Traducendo: il signor B. va ad escort, ma Baffetto se la fa coi giudici (che cosa orribile!) e ha anticipato lo scandalo. A via Solferino possono anche chiamarla equidistanza, terzietà. A casa mia è un modo per equiparare due fatti dal peso specifico moooolto diverso. "Imboscare" una notizia affiancandola a un'altra. Un colpo alla botte e uno al cerchio. E' una tecnica di comunicazione che i direttori dovrebbero conoscere bene, visto che la usano quasi tutti i giorni. Al Corriere lo hanno fatto e, forse, avrebbero continuato a centellinare informazioni su uno scandalo pubblico e parecchio odioso, piuttosto che imbastirci sopra una campagna che a me sembra più basata sui fatti che faziosa. La terzietà può andare bene, ma non è una ricetta valida per tutte le situazioni. Soprattutto non dovrebbe diventare una malattia della comunicazione.

aghost ha detto...

vado controcorrente: penso che gli articoli di Sofri et similia siano una delle ragioni per cui i giornali perdono lettori. Questo parlarsi addosso tra intellettuali e giornalisti fa scappare il lettore normale, che vorrebbe magari capirsci qualcosa senza tanti voli pindarici.

Vi ricordate l'indecente litania di qualche anno fa sul centro sinistra col trattino o senza? Sono andati avanti a menarla per giorni e giorni, è stato davvero il punto più basso del giornalismo italiano.

Barbapapà ha detto...

Victor, sottoscrivo in pieno la tua analisi. Il modo di fare giornalismo del Corriere è ipocrita e peloso. De Bortoli lo spaccia per giornalismo di informazione, quando in realtà è solo un modo per non assumersi responsabilità di fronte al lettore.

Per Aghost: io dubito fortemente che la causa del calo dei lettori (in un paese strutturalmente arretrato in tal senso rispetto ai paesi più evoluti) sia da imputare ad editoriali e commenti. Secondo me, anzi, il lettore medio si sofferma poco su questa parte del giornale. Il problema, come tu stesso hai più volte segnalato, è legato alla difficoltà dei giornali a competere con internet. Ormai è venuta meno quell'asimmetria informativa che, un tempo, rendeva la carta stampata il principale snodo per comprendere il mondo. E penso che l'avvento di questa nuova era dell'informazione globalizzata e on-line abbia, non a caso, penalizzato maggiormente i quotidiani rispetto alla TV. A quest'ultima si rivolge ancora e prevalentemente gente vecchia (non solo anagraficamente) e poco istruita, che tipicamente legge poco i giornali. Il resto, la parte più avanzata e ormai organicamente intrecciata all'innovazione tecnologica, sta saltando a piè pari la disintermediazione della realtà operata dai giornali per recuperarsi le notizie, anzi le informazioni di prima mano. In un illuminante post di qualche tempo fa, Nonunacosaseria aveva raccontato di essersi formato l'opinione su non ricordo quale decreto legislativo recuperando direttamente il testo su internet e integrando il tutto con il commento di un blog. Questo, volenti o nolenti, è il problema che i giornali devono affrontare. La combinazione di internet + carta stampata dovrà evidentemente essere declinata in maniera da esaudire esigenze informative complete e complesse.
Chiudo affermando che editoriali e commenti sono un pilastro portante di Repubblica ed è la sezione che, secondo me, ha mantenuto una costante elevata qualità dimostrando nel contempo una bella vitalità con l'acquisizione nel tempo di nuove ed interessanti voci (penso alla Urbinati, a Galli, a Boeri, per fare qualche nome).
Quando si arricchisce la discussione con un contributo come quello di Sofri di ieri, si rende un bel servizio al giornalismo. Certo, bisogna avere voglia e tempo di dedicarsi alla lettura.

aghost ha detto...

barba, ho qualche dubbio che si possa sempre andare alla fonte delle notizie. Ormai è tutto un furioso copia e incolla, il controllo delle fonti del tutto aleatorio.

Ben che vada puoi orecchiare più opinioni e sperare di farti un'idea tua, ma non potrai mai sapere se all'inzio te l'hanno raccontata giusta :)

Barbapapà ha detto...

Quello che dici è assolutamente vero, Aghost. Si percepisce però sullo sfondo una diffidenza crescente verso l'odierna forma di giornalismo, che ha perso per strada molto della sua rigorosa tradizione fatta di notizie e, diciamolo, di fatti separati dalle notizie.
Ne abbiamo discusso varie volte e mi pare siamo allineati al riguardo.

Enrico Maria Porro ha detto...

Confesso di aver fatto molta fatica (complice l'ora tarda) a leggere e comprendere il pezzo di Sofri. Che comunque ho apprezzato.

Quoto entrambi, Aghost e Barbapapà: Repubblica ha tra i principlai punti di forza i commenti di Sofri e degli altri ciatti da Baraba.

Aghost ha ragione quando teme l'avvento dell'era del copiaincollismo incallito.

Enrico Maria Porro ha detto...

Il figlio di Sofri, Luca, non è molto d'accordo con papà:

http://www.wittgenstein.it/2009/10/21/da-che-parte-stare/

aghost ha detto...

ecchéduepalle! Ora ci dobbiamo sorbire anche le schermaglie dialettiche tra sofri figlio e sofri padre?

Si scrivessero una mail!