mercoledì 7 ottobre 2009

Sara Strippoli e la clinica dei refusi.



Dal dorso torinese di Repubblica, tiro fuori un articolo per dimostrare come fare ad irritare noi pignolissimi feticisti.
Sara Strippoli non è una giornalista di primo pelo, qualcosa dovrebbe avere imparato, soprattutto a controllare quello che si scrive prima di spedire il pezzo.
Considerato che le redazioni locali sono in genere la palestra di chi vuole avviarsi alla carriera in questo disgraziato mestiere, direi che la Strippoli è ancora indietro.
 Il tema è l’apertura di un piccolo ambulatorio medico all’interno di un centro sociale di Torino, il “Gabrio” in Borgo San Paolo.
Il titolo lo definisce fra l’altro “la clinica per i clandestini”, e già qui ci sarebbe da discutere, visto che in realtà si tratta semplicemente di un ambulatorio (clinica ?!) in cui non vengono chiesti i documenti.
Ci potrei andare anch’io o anche tu, Enrico, se abitassi a Torino: per la Strippoli (o per il malefico titolista) saremmo “clandestini” ?
Ma veniamo alle perle strippoliane. Si comincia con “non spiaccica una parola d’italiano”. Ohibò, le parole si “spiaccicano”? Dove, sul pavimento, contro il muro? E che rumore fanno?
Credevo che si “spiccicassero”.
Si prosegue con “è ha una parete arancione…”. Troppa grazia Sara, deciditi, se hai dei verbi ausiliari in più nel cassetto, non sprecarli tutti insieme, possono sempre servire.
E questo per quanto riguarda la lingua italiana.
Non è che in matematica la Sara vada meglio: “Tre medici, una studentessa, una infermiera professionale. Sono loro, per ora, le quattro persone che lavorano come volontari”.
Quattro? Ma come, 3  (medici) +1 (studentessa) +1 (infermiera), non fa 5 ?
Per finire: “Abbiamo medicine per evitare che chi non ha soldi e viene qui con la prescrizione del suo medico vada via senza sapere come procurarseli”. Procurarsi cosa, le medicine o i soldi ?

Con cattiveria.
GPP

1 commento:

Barbapapà ha detto...

Bravo GPP! Bisogna essere inflessibili verso le sciatterie che troppo spesso caratterizzano gli articoli dei giornalisti, anche e soprattutto in casa Repubblica.
Ho, non di rado, la sensazione di trovarmi ad approcci ministeriali nella redazione di molti articoli. E l'aspetto che mi lascia più basito è che non sembra esservi alcun controllo redazionale, come se nessun giornalista oggi - in questa radiosa era moderna - debba essere più ricontrollato come invece un tempo accadeva. Ma il caporedattore o il caposervizio non dovrebbero garantire anche la qualità degli articoli pubblicati? O per il sol fatto che un giornalista scriva su Repubblica questo equivale ad una sorta di certificato di qualità, quindi di immunità da errori, su quanto scrive?