lunedì 12 aprile 2010

La morte di Berselli: il ricordo di Filippo Ceccarelli.



Dal "Mulino" all'Italia, la politica come piacere

di FILIPPO CECCARELLI

Adesso sarà molto più difficile capire la politica, in questo passaggio cruciale, senza Edmondo Berselli.
E ancora più difficile sarà interpretarne le vicissitudini non tanto nei suoi mutevoli scenari, ma alla luce di quello che, normalmente invisibile e spesso irriconoscibile, stabilmente domina e muove la vita pubblica e al tempo stesso le sta sotto, e dietro, ma anche al lato e soprattutto a traverso. Là dove solo la cultura, la rettitudine e la curiosità spingono a volgere lo sguardo.
Viene da riaprire i suoi libri. Rigore e buonumore s'impongono fin dalla calligrafia delle dediche. Scorrono ricordi. La piccola grande e tenera sorpresa de Il più mancino dei tiri. L'allegria dell'Italia leggera. L'impeto con cui in Post-italiani si esamina, si dà dignità e si offre un manuale per comprendere in anticipo questo tempo senza età. E ancora: la fantastica scorrevolezza di Quel gran pezzo dell'Emilia; il sulfureo dileggio dei Venerati maestri; la nostalgia di Adulti con riserva fino alla "biografia morale" di Liù, quanto di più simile a un congedo.
Ecco. A troppi lettori mancheranno d'ora in poi gli indispensabili guizzi di Edmondo, le sue vitali intuizioni, gli imprevedibili collegamenti, la gioviale e sapiente irriverenza con la quale consigliava di osservare il potere e i potenti come entità del tutto relative e anche provvisorie, da non prendersi mai troppo sul serio.
E' una lezione anche scomoda da praticare nei giornali e nei laboratori della conoscenza: quanti altri se lo potevano permettere?
Laurea in filosofia, era approdato giovanissimo al Mulino: correttore di bozze destinato a diventare direttore editoriale e poi alla guida della rivista, da lui trasformata in una pubblicazione agile, poliedrica, aperta alla cultura di massa. Sempre molto seria, ma per diversi aspetti anche spiazzante. Si sa che il Mulino è stato un prodigio di convivenza per culture politiche, personalità di spicco e appartenenze accademiche. In quel luogo si ritrovavano cattolici democratici come Scoppola e Andreatta; socialisti riformisti come Gino Giugni e Federico Mancini; intellettuali vicini al Pci come Gianfranco Pasquino; e laici anche piuttosto anticomunisti come Nicola Matteucci e poi Angelo Panebianco. Meno si sa che per anni quella rara armonia, quella fruttuosa coabitazione è dipesa parecchio anche dall'impegno, dalle mediazioni e in definitiva dalla sensibilità di Edmondo Berselli che scherzando diceva: "Il mio lavoro è andare a prendere un caffè".

In realtà è stato più uno studioso onnivoro che un intellettuale specializzato. Nessuno è mai riuscito a incasellarlo in qualche partito o cordata che non fossero quelli rispondenti a una sardonica eccentricità. Incaute leggende gli attribuivano frequentazioni nel mondo di Prodi, eppure resta di Berselli, o comunque si deve a lui l'entrata in circolo della più divertente raffigurazione del Professore che "spande bonomia da tutti gli artigli".
In realtà poteva contare su un ingegno privo di pregiudizi; e rispetto alle novità era assolutamente consapevole che solo un approccio meticoloso e insieme anti-retorico gli aveva consentito di congedare con i dovuti riconoscimenti una intera classe dirigente e nel contempo di poter seguire, documentandola in profondità, la grande mutazione italiana e le sue conseguenze nell'immaginario prima ancora che nel sistema politico.
Dalle radici storiche e dalle cronache, dalla memoria come dall'attualità Berselli estraeva materiali di ogni genere che con un accorto e personalissimo metodo finivano per trasfigurarsi nel calderone di una mitologia sociale che non di rado si rivelava spassosamente illuminante: il mussolinismo e il karaoke, Padre Pio e Dagospia, le osterie e l'ecstasy, l'Azione cattolica e il wonderbra, l'Angiolillo e il rap, e Capalbio, la moda fusion, il delitto di Cogne, il revisionismo, Afef, l'uninominale e il divertissement spinto a virtù di rassegnata temperanza.
Ebbene sì: un politologo come si deve, quindi ben lontano dall'accademia. O forse: un professore-scrittore-giornalista che accumulava la più agguerrita complessità per restituirla in forma di disarmante chiarezza. Eppure, al di là dei compiti e delle definizioni, viene oggi soprattutto da pensare a lui come a un uomo che per tanti anni ha suonato il suo spartito, la sua canzone, perché no?, su di una gigantesca tastiera.
A un estremo c'erano le note gravi, la storia, la geografia, il duro studio a tavolino, le dottrine politiche, le bibliografie, le statistiche, anche; all'altro estremo c'erano i toni della vita, gli imprevisti, i sentimenti, gli scherzi, i ricordi e tanti, tantissimi amici. Misterioso era il modo in cui riusciva a combinare, o meglio ad armonizzare questi momenti, questi stati dell'essere. Ma straordinario era l'effetto di questa sua lezione sulla pagina, lungo il filo del ragionamento, o nel fiume della conversazione. Che poi è quello che resta vivo di una persona - e non c'è morte, anche ingiusta e precoce, che lo possa nascondere, anzi.

12 aprile 2010 - La Repubblica

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