Grazie all'aiuto del nostro amico Blogorrea, vi riproponiamo uno dei più bei reportage di Giorgio Bocca, risalente a mezzo secolo fa e che raccontava il Boom a Vigevano, capitale dell’industria calzaturiera, ma cambiando città e produzione si poteva adattare a qualunque posto di quell’Italia. Ma forse anche di quella successiva, diciamo fino all’anno scorso. Pensate che giornalismo c’era allora. E che giornali: cos’era il Giorno allora non si può capirlo, guardando quello di adesso.
Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste. Di abitanti cinquantasettemila, di operai venticinquemila, di milionari a battaglioni affiancati, di librerie neanche una. Non volevo crederci. Poi mi hanno spiegato che ce n’era una, in via del Popolo: se capitava un cliente, forestiero, il libraio lo sogguardava, con diffidente stupore. Chiusa per fallimento, da più di un anno.
Diciamo che il leggere non si concilia con il correre e qui, sotto la nebbia che esala dal Ticino, è un correre continuo e affannoso. Tribù fameliche giungono dalle province venete e dalla Calabria; sui prati che videro galoppare i falconieri di Francesco Sforza sorgono, nel consueto disordine, baracche, villette e condomini; negli invasi delle risaie crescono i pioppi di pelle bianca e va spegnendosi il grido del sorvegliante “piantè ben tosann”. Ora anche i braccianti della Lomellina si inurbano in questa Vigevano dove i contadini possono diventare ciabattini e i ciabattini industriali nel volgere di poche settimane.
Avanti popolo, la ricchezza è a portata di mano, di fallimento non si muore e se va bene va bene, il denaro circola,il disoccupato manca, le boutiques, i negozi di primizie, i fiorai sono gli stessi di via Montenapoleone e più cari, gli elettrodomestici e le automobili si vendono che è un piacere.
“Ma dice sul serio? Non c’è neanche una una libreria?”.
“Dico sul serio, non c’è”.
“Vorrebbe sostenere che a Vigevano è impossibile acquistare un libro?”
“Non ho detto questo. A Vigevano ci sono molte cartolibrerie. Potete trovarci tutti i libri mastri che volete. E La monaca di Monza del Mazzucchelli, se non è esaurito”.
“Via, la smetta con i paradossi. Dica piuttosto, sinceramente, che impressione le ha fatto questa provincia toccata dal miracolo economico”.
Io lo dico.
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Dico che questo è un miracolo vero, per intervento soprannaturale. Togliete Dio, il demonio o un ‘altra presenza metafisica e spiegatemi, se siete capaci, questo rigoglio economico sbocciato fra il disordine, il dilettantismo, il rifiuto di ogni regola associativa. Se non c’è stata una Pentecoste, chi ha infiammato questi rappresentanti di commercio, meno che monoglotti, alla conquista dei mercati mondiali per le italian shoes? Se non c’è stata l’illuminazione di uno spirito santo, chi consentirebbe al mio interlocutore, appena alfabeta, di sentenziare con sicurezza: “A me se mi chiudono il Congo me ne sbatto. Io ti penetro in Brimania e aumento le vendite”?
Commerci misteriosi per una misteriosa industria. Che a Vigevano si producano scarpe lo sanno tutti, ma quante siano le fabbriche e i fabbricanti, di preciso, non lo sa nessuno: solo un terzo degli operai è controllato dai sindacati, neppure un quarto degli industriali dalla loro associazione. Credeteci o meno, ma l’unico elenco degli industriali che esista è quello telefonico. A fidarci potremmo dire che i fabbricanti di scarpe piccoli e grossi, con almeno dieci operai, sono più di novecento. Ma non ci si può fidare, nello spazio di un anno un centinaio almeno hanno fatto fallimento o hanno cambiato genere e va a sapere quanti li hanno sostituiti.
Non più di quattro aziende sono guidate da criteri industriali. Il resto si regge sul lavoro furibondo, sull’intuito commerciale, su un ottimismo indomabile. Una borghesia in formazione, dinamica, laboriosa e audace quanto zotica, eterogenea e, per certi aspetti, miope, conduce la confusa battaglia. I “padroncini” si strappano gli operai specializzati, riempiono di cercasi esperto le colonne della pubblicità, ma guai a parlargli di un qualsiasi contributo alla istruzione professionale.
Due anni fa l’assessore all’istruzione pubblica ottenne dalla prefettura di Pavia la creazione di una scuole per segretari di azienda, contabili, corrispondenti in lingue estere. Allora chiese agli industriali un contributo di due milioni. “Ma l’è matt, lu!”, gli dissero.
Qui, per l’amministrazione aziendale, basta e cresce la “signorina” che ha fatto l’avviamento. Se qualcuno assume un ragioniere dà scandalo, lo aspettano al caffè Commercio per dirgli: “Un ragiunier in te n’ufficina! Ma chi te credes d’es diventaa?”
Quando si trattò di istituire un corso per orlatrici il Necchi di Pavia mise subito le macchine a disposizione, ma quelli di Vigevano neanche una lira, sicché le orlatrici, adesso, se le tirano su in fabbrica rimettendoci il quadruplo o il quintuplo. E non parliamo delle cooperative edilizie contribuendo alle quali avrebbero dato una casa ai loro operai. Su mille e passa aziende una sola ci ha pensato.
Si dirà che Vigevano fa storia a sé. Può darsi, ma ho la vaga impressione che nella provincia italiana, toccata dal miracolo la piccola industria sia un gran parte così, avventura e improvvisazione. Di certo essa sta mettendo enormi quantità di denaro nelle mani di neo-borghesi impreparati a spenderlo, combattuti tra il desiderio di mostrarlo e quello di nasconderlo, terrorizzati al pensiero di perderlo.
Questi neo-borghesi ignorano la certezza metafisico-aristotelica di non poter mai, in nessun caso, vivere senza vantaggio e privilegio, dalla quale i signori di un tempo traevano il loro impeccabile stile. Gli è pure sconosciuto quel fiducioso, illimitato, persino candido rispetto per il denaro che dava serena imponenza al volto dei commendatori e cavalieri ufficiali. Il loro rapporto con il denaro è più difficile e ambiguo: un desiderio vergogna, una avidità che non ama confessarsi, un continuo esitare fra lo scialo pacchiano e la forsennata conservazione.
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Il loro sogno è di sposare la figlia a un industriale figlio e nipote di industriali. Matrimonio celebrato da un cardinale, e se proprio non si può da un vescovo. Possibilmente con il ministro Pella fra gli invitati. Uno ci è riuscito sborsando non so quanti milioni a un’opera pia. La sposa indossava un abito da mezzo milione, gli invitati erano un centinaio e don Gianni Scotti (il fratello di don Beppe, generali e diplomatici in famiglia, una antica famiglia, un po’ a corto di grano, si sa) era il maestro delle cerimonie. Però tutto si è svolto a debita distanza da Vigevano.
A Vigevano prudenza. Sono finiti i tempi in cui i Masseroni e i Crespi (del ramo scialacquatore) spendevano e spandevano in gioconda pubblicità contendendosi le ballerine di Macario per i balli di Carnevale e ostruendo le strade con i loro macchinoni-cetacei.
Adesso tutto è cambiato: c’è dieci, venti volte più denaro di allora, si spende più di allora, ma senza mettersi in piazza. Certo qualche notizia in un modo o nell’altro trapela: uno si è fatto una villa da un miliardo e duecento milioni con taverna, patio, piscina, giardino d’inverno, colonne di Assuan e scimmie destinate a broncopolmoniti letali, un altro va a correre in go-kart alle Bahamas o a Tokio come suo padre sarebbe andato, in bicicletta, a Casalpusterlengo o a Sartirana. In una casa sono racconti duecento e cinquanta quadri del Magnasco e di buoni maestri ottocenteschi (degli astrattisti in provincia non ci si fida); in un’altra quindici Fornara dei più importanti. Gli eletti, vicini all’olimpo aristocratico di don Beppe e di don Gianni Scotti, hanno mobili antichi di notevole valore. Gli altri, la maggioranza, si accontentano di quel che passa la Brianza purché stracarichi di marmi, dorature e cristalli.
Le automobili sono quattromila. Aggiungete gli automezzi ad uso industriale, le motociclete, gli scooter e scoprirete una città fra le più motorizzate d’Italia. La più motorizzata in fatto di Giuliette più o meno sprint. Però le grosse automobili di lusso non compaiono. Restano lontane, come le ville al mare o in montagna, come i motoscafi e i panfili che navigano sotto le lacere e gloriose bandiere del Panama e della Costarica.
Volendo, anche dal poco che appare a Vigevano, ci si potrebbe fare un’idea di un certo tenore di vita: signore che spendono in cure di bellezza, pettinatrici e profumi, centomila lire al mese; un abito al mese per quelle modeste, uno ogni tre giorni per le maniache.
Ma in giro si vedono poco, appena possono scappano a Milano o spariscono per mesi a Cortina, a Rapallo. A Vigevano restano i mariti per fare i soldi e occuparsi delle “relazioni umane”. Che sono in parte frutto di ipocrisia, ma in parte sincere; una certa modestia popolaresca non dispiace a questi ruvidi self made man. Se a Milano, per esempio, seguono il Loi dalle sedie di ring, a Vigevano li trovi anche nei popolari. Modesti a Vigevano! La pubblicità che può fargli comodo a Londra o a Dusseldorf, nella loro vecchia città la evitano. Capita il tipo che fa il numero unico per la festa patronale, gli rifilano un diecimila, ma a patto che non li nomini: “Sai com’è, preferisco non mettermi in piazza”.
E ogni sera eccoli al caffè Commercio o al Centrale per offrire o farsi offrire un moka dal fratello rimasto povero o dal compagno delle elementari rimasto operaio: le vecchie amicizie resistono alla lotta di classe, c’è posto per tutti nel pentolone dialettale-paternalistico, e poi la provincia offre vantaggi non trascurabili. Le case sono a buon mercato, il terreno non supera al centro le trenta, trentacinquemila al metro quadrato. Roba da ridere se pensi a Milano. La vita sociale non ti obbliga a grandi spese: con quarantottomila annui ti iscrivi al club Sport, il più caro, se no vai al Cai, dove bastano tremila lire. E poi, scusate se è poco, in fatto di tasse si ragiona. Sapete, in provincia, nella provincia, l’economia ha leggi sue particolari.
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Nel 1961 l’iniziativa privata ha messo in cantiere, a Vigevano, un migliaio di edifici per un valore che non dovrebbe essere lontano dai trenta miliardi. Nello stesso periodo l’industria calzaturiera ha prodotto un terzo delle scarpe italiane e un quarto di quelle esportate: diciamo trenta milioni di paia per un fatturato sui cento miliardi. Gli affari sono andati a gonfie vele per le industrie cartotecniche, della gomma, del legno. Non è il denaro che manca in una città dove, nello spazio di tre anni, sono sorte centosessanta officine meccaniche che producono macchine utensili. Le aziende commerciali sono millequattrocento: per restare ai negozi ce ne saranno almeno quaranta al livello della Milano ricca. E non parlo dei professionisti numerosi e, mi si dice, floridi. Ebbene, se voi credete che la montagna dei capitali produca redditi adeguati vi sbagliate. Altrove i redditi industriali saranno del dieci, del venti per cento, qui neppure dell’uno. Si vede che interi carichi di scarpe colano a picco nel tempestoso oceano, forse migliaia di macchine utensili vengono travolte dalle piene del Ticino, non è escluso che commerci e libere professioni si basino su un vorticoso scambio di assegni a vuoto. Sicchè vi tocca leggere sul ruolo delle imposte comunali questo povero elenco: solo quattordici contribuenti sopra i dieci milioni di imponibile, solo ventisei dai cinque ai dieci: solo ottantasei dai tre ai cinque. L’amministrazione, che è socialcomunista, non se ne lamenta. “Per otto anni – dice il sindaco – l’imposta di famiglia non venne toccata. Negli ultimi tre anni siamo passati da centosessanta a duecento milioni di introiti”. Mentre il signor sindaco mi raccontava queste piacevolezze io pensavo, quasi commosso, al professor Nothcote Parkinson. Lui vive nel timore che le tasse “riducendo il numero dei ricchi facciano gravare tutto il peso fiscale sui poveri”. Quasi quasi gli consiglio di passare le ferie a Vigevano: il clima non è dei migliori, ma il regime tributario può confortarlo.
Dimenticavo di precisare che l’amministrazione era socialcomunista anche negli otto anni di tregua fiscale. Forse l’Italia sognata dai neo-borghesi è spartita così: tutti i municipi ai rossi tutti i seggi parlamentari ai neri. Sindaci di sinistra, onesti, nemici delle bustarelle; e per ciascuno un deputato angelo custode che gli impedisca qualsiasi mattana, vedi pagamento delle tasse. A Vigevano il sogno dei possidenti si è quasi avverato: se gli amministratori falce e martello li tassano ricorrono in alto e ottengono rapida giustizia. Se li minacciano di gabelle replicano sdegnati: “Se è così mi trasferisco altrove con la fabbrica”.
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A Vigevano si è arrivati a questo: avendo un grande industriale deciso di spostare la sua azienda a Mortara, qualcuno dell’amministrazione gli ha fatto chiedere se, per caso, non era scontento delle imposte. Al che il valentuomo ha avuto la bontà di rispondere che no che le tasse non c’entravano, che era proprio soddisfatto dei suoi amministratori frontisti.
Pare che in Inghilterra e in America, paesi di ferrea disciplina fiscale, ci siano degli esteti scontenti: detestano il livellamento dei gusti conseguente al livellamento dei redditi, aborrono dalla grigia civiltà suburbana che si va formando. Però questi non li inviterei a Vigevano come il professor Northcote. Potrebbero scorprire che in fatto di gusto e di cultura la liberissima Vigevano è peggio che andar di notte.
A Vigevano, credetemi, la noia è grande. Una delle città più ricche d’Italia, quanto a denaro, è fra le più povere quanto a vita intellettuale e sociale. La torre del Bramante, la piazza gioiello ispirata ai cartoni di Leonardo, la mole del castello, le splendide chiese sono le testimonianze di un antico fervore intellettuale naufragato e spentosi sulle rive nebbiose del Ticino. Mille fabbriche e nessuna libreria, nessun circolo culturale, nessuno spettacolo teatrale decente. La stagione lirica dura tre giorni, lo spettacolo che ha avuto maggior successo è stato quello della “Wilmissima”, la famosa concittadina, la cantante De Angelis. Ho letto un resoconto di quella memorabile serata sul foglio locale a maggior diffusione. C’era anche un editoriale intitolato: Più rigatoni e meno megatoni. E un corsivo sui carabinieri “che montano la guardia anche la notte di Natale sotto la neve che è fredda”. Seguivano pettegolezzi e facezie municipali. Quando mi hanno detto che se ne vendono ottomila copie, cioè è letto dall’intera cittadinanza, ho avuto un attimo di vertigine.
La vita politica non è quel che si dice turbinosa: cento iscritti alla Dc e poche decine al Partito liberale dimostrano il tipeitiepido interesse della classe dirigente tutta presa, come si è detto, dalla incessante bisogna di fare soldi per fare soldi e ancora soldi.
I soldi, tanto per essere chiari, piacciono a tutti, anche al sottoscritto. Che la neo-borghesia di Vigevano e della provincia italiana in genere si dia da fare per arraffarne la maggior quantità possibile mi sembra, se non cristianamente esemplare, umanamanete normale. Meno comprensibile è l’esclusivismo, la cecità di questa corsa al benessere, il non preoccuparsi di ciò che significa, dei doveri che impone, delle previdenze che esige.
Sembra incredibile che un ceto così ricco di fiuto merceologico, di attaccamento al lavoro, di ardimento commerciale, di gusto manifatturiero non riesca a capire che una società, la società in cui vive, non può continuare senza un solido assetto sociale, senza interessi ed iniziative intelettuali, senza un ordine. In altre parole senza una civiltà che non sia quella pura e semplice dei consumi.
(Il Giorno, 14 gennaio 1962)
1 commento:
Telese nel suo ricordo qualche ragione ce l'ha perché nessuno è perfetto (Billy Wilder aiuta sempre o comunque a comprendere l'animo umano), però anche l'anticipazione di oggi su Repubblica (solo di carta) del prossimo "grazie no" da Feltrinelli è difficile da non quotare in toto, parola per parola...
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