lunedì 1 aprile 2013

Fabrizio Ravelli ricorda Enzo Jannacci.

Dalle pagine milanesi di Repubblica di ieri:

Volendo rimare nostalgia con topografia, ci si può anche mettere a disegnare una mappa della Milano di Enzo Jannacci, e d'altra parte a lui piaceva disegnare con la matita della nostalgia. Di una Milano vissuta, anche. Enzo bambino abitava in via Sismondi angolo piazza Adigrat, zona viale Argonne. Beppe Viola, quattro anni più di lui, in piazza Adigrat: stesso cortile, stessa banda, stessa origine. Figli dell'Aeronautica. Jannacci di un pilota che aveva fatto la Resistenza, e che lo portò – lui ragazzino di nemmeno dieci anni – in piazzale Loreto a vedere che fine aveva fatto Mussolini. Beppe figlio di un marconista. E quando Enzo cantava “El mé indirizz”, quella casa vecchia “tripli servizi sì, ma in mezz al praa” era la nostalgia di una povertà non vissuta ma frequentata, il mondo degli ultimi che aveva scelto come suo.
E però l'Ortica, quella del famoso palo che “vederci non vedeva un'autobotte”, la canzone scritta con Walter Valdi, non era lontana da casa Jannacci, dieci minuti a piedi giù per viale Argonne. La banda di ragazzini che magari tornavano a casa e la mamma puliva il naso sporco di sangue, “era una cosa di prenderle ma anche di darle via”. Lui, Enzo, prima il liceo e il Conservatorio, e poi la musica prima della laurea in Medicina. Dal surreale del “Cane con i capelli” (vendettero il 45 giri con pupazzo annesso), all'epica di una Milano povera del dopoguerra, in fondo il passo non era così lungo. Periferia, sempre, com'era allora via Sismondi. Quella da dove per andare in piazza del Duomo “ghe voeur mezz'ora e ghe voeren du tram”, e pareva un viaggio lungo.
Piazza del Duomo, il centro raccontato alla moglie: “Ti te sé no: gh'è tant automobil de tucc i color, de tucc i grandéss, l'è pien de lus ch'el par de véss a Natal, e sora el ciel pien de bigliétt de mila”. “Ti te sé no”, il mondo dei ricchi immaginato da un povero, “che bell che gh'a de véss, véss sciori con la radio noeuva, e nell'armadio la torta per i fioeu”. La topografia della povertà milanese immaginata e scelta da Jannacci muove sempre dalla periferia, una periferia simbolica ma precisa. Prendete Rogoredo: oggi ci sono i grattacieli, allora da lì veniva quella scappata con i suoi “des chili” (diecimila lire) che lui (“pronti!”) le aveva dato per un krapfen, e non aveva moneta. Lui andava a Rogoredo, “cercava i so danée”, girava per Rogoredo “vosava me on strascée”: nonnonnonnò non mi lasciare, mai. E quando pensava al suicidio, causa pena d'amore e danno economico”, era là “dove el Navili l'è pussé negher, dove i barconi poden no arrivà”. Poi ci ripensa, quando “l'era bel fermòtt de gemò on quart'ora”.
I Navigli, l'Idroscalo del barbon con le scarpe da tennis che andava a farci il bagno. C'è una canzone – più un monologo – che si chiama “Parlare col liquido” inteso come acqua: “A me piace parlare con la roba, è uno dei motivi per cui la gente mi considera strano. Mi va bene anche se si tratta di roba liquida. Se devo parlare con della roba liquida, preferisco l'Idroscalo. Anche perché non disturba. Il mare, per via del cìf ciàf tipo risacca, non lascia le pause, vuol parlare sempre lui”. La canzone è ambientata all'Idroscalo, dove Jannacci in compagnia si ferma “per motivi urologici” anche se non gli scappava, “ma mi han convinto con la storia della spia...”. La 600 “ci guardava coi suoi occhi piccoli”. E il Naviglio? “Il Naviglio è roba liquida anche lui, ma meno importante dell'Idroscalo”.
Periferia è la fabbrica. Quella, non meglio identificata, di Vincenzina che ci stava davanti. Quella di Gigi Laméra “che abitava dietro a Baggio”, e alla catena di montaggio si innamora di una “tutta bionda con un fresco cappellin”. Lui che veniva in bicicletta, lei che “non è fine, la credevo un gran signor”. Quindi Gigi prendeva il treno per non essere da meno, “ostentava una cravatta dell'Upìm”, e finiva licenziato perché ritagliava fiori nelle lamiere. Periferia e piazza del Duomo. “La forza dell'amore” come una Milano vista dall'alto. Porta Romana, Porta Vittoria, piazza Napoli, piazza Susa, piazza Martini, e dappertutto “ier sira pioveva”. Il Duomo: “t'ho cognossu sul técc del Domm, in controluce te parevet un omm...”. “Il Duomo di Milano” è anche una sua canzone, e parla di un funerale.
Il centro anche, magari quello del magnaccia di piazza Beccaria, di “T'ho comprà i calzett de seda” con la riga nera, “te scaréghi tutt i ser i piazza Beccaria, ti te mostret de sottbanc la tua mercanzia”. Sant'Ambrogio del giudizio di Dio per Prete Liprando (“Che piedi lunghi!”). O via Canonica, che veniva bene con la rima di Veronica, quella con cui “non c'era il rischio del platonico”:”Sei stata il primo amor di tutta via Canonica. Davi il tuo amor per una cifra modica. Al Carcano, in pé”. È curioso che il Carcano, cine-teatro, sia un'aggiunta posteriore: la prima versione diceva “al cinema, in pé”.
La topografia reale della Milano di Jannacci era invece, dopo via Sismondi dove aveva tenuto il suo ambulatorio da medico di base, curatore di poveri anche gratis, la casa di via Mameli dopo il matrimonio con Giuliana, in affitto e il proprietario era Nicola Arigliano. La palestra del karate di via Pasteur: “Per giocare a karaté è indispensabile conoscere le seguenti cose: sentirsi italiani, però dendro, conoscere l'indirizzo segreto di Martin Bormann....”. La pizzeria Rosy e Gabriele a Porta Venezia, quella Strambio 6 a Città Studi, Giggi Fazi (finché è durato) dove una sera mise la faccia nella pastasciutta, per l'entusiasmo. Una Milano da girare con la Vespa scassata. E se era troppo tardi, buttarsi in una pozzanghera per raccontare alla moglie di aver avuto un incidente.

Fabrizio Ravelli - Repubblica

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