giovedì 20 marzo 2008
Il reportage da Bagdad della "embedded con le palle" Francesca Caferri.
NEL BUIO DI BAGDAD CINQUE ANNI DOPO
dal nostro inviato Francesca Caferri "EMBEDDED" con la terza divisione di fanteria dell'esercito statunitense
Neanche di notte Bagdad sembra una città normale. Spente le insegne, svuotate le strade, pochi soldati rimasti a pattugliare i check point, sono le luci a raccontare la storia della capitale irachena. In molte zone quasi non si vedono: la notte è buia come quelle africane. In altre il rumore delle migliaia di generatori è un sottofondo costante, piccolo scotto da pagare, per chi se lo può permettere, per avere radio e televisione accesa. La luce, quella per tutti, a Bagdad manca dal 20 marzo del 2003, quando i primi missili americani cominciarono a colpire la città, segnando l'inizio della guerra. Oggi l'unico punto dove l'elettricità non manca mai è la Zona Verde, che con le ambasciate, la sede del governo e il parlamento illuminati a giorno 24 ore su 24, ricorda a tutti dove sta il potere in Iraq. Sono passati cinque anni esatti dalla notte in cui quel primo missile colpì Bagdad e l'incubo, per l'Iraq, è tutt'altro che finito. A capirlo ci vuole poco. Nelle vie della capitale, come nel resto del paese, i soldati americani si spostano armati fino ai denti anche per tragitti minimi. I convogli delle compagnie private di sicurezza percorrono le strade a tutta velocità, spesso con le armi che vengono fuori dai finestrini: la gente appena li vede arrivare accosta per non essere travolta.
Ovunque si sentono lamentele per la mancanza di personale specializzato in scuole e ospedali: chi ha potuto è fuggito all'estero. "È andata così, questa è la nostra storia. Non ci piace, ma ci è toccata in sorte e non possiamo cambiarla", dice lo sceicco Naana Abaad Karqaz quando gli si chiede cosa pensi della ricorrenza di oggi: 38 anni, statura imponente, occhi chiari, quest'uomo non fa nulla per nascondere la perplessità nei confronti dell'intervento di cinque anni fa. Eppure sono persone come lui a rendere l'anniversario meno amaro per le migliaia - più di 160mila - di soldati americani ancora in Iraq.
Karqaz è il capo del villaggio di Manari, nella provincia di Arab Jabour, una sessantina di chilometri a sud di Bagdad. Per lui oggi è una giornata speciale: dopo settimane di incontri, richieste, promesse e giuramenti è arrivato il momento di ufficializzare la collaborazione del suo villaggio con gli americani. Karqaz ha accompagnato di fronte ai soldati gli uomini della sua zona in cerca di lavoro, garantendo per loro: fra di essi verranno selezionati coloro che entreranno a far parte dei gruppi della Sahwa, il Risveglio, le milizie sunnite finanziate dagli americani e dal governo iracheno per combattere coloro che, a colpi di bombe, continuano a insanguinare l'Iraq. E su gruppi come questi che si è basata la strategia di David Petraeus, comandante americano nel paese, per vincere una guerra durata troppo a lungo: spezzare l'alleanza fra i sunniti ed Al Qaeda, portare i primi dalla parte degli Usa a colpi di dollari è stata - insieme alla decisione di Bush di aumentare i soldati in Iraq e alla tregua dichiarata dagli sciiti di Moqtada al Sadr - l'intuizione che ha consentito a Petraeus di far diminuire la violenza in Iraq e di guadagnarsi la fama di uomo della svolta.
Una fama, dicono molti, che presto potrebbe portarlo a Washington.
Per aderire al progetto della Sahwa a Manari sono arrivati in 300, dai 15 ai 45 anni: per ore se sono rimasti seduti nel cortile di una casa in attesa di essere intervistati e di vedersi registrare le impronte delle mani e della retina. "Vogliamo collaborare con gli americani per portare sicurezza nella nostra zona - dice Karqaz - solo così poi riapriranno le scuole, ci sarà lavoro e riusciremo a ripartire". Sulla violenza che per anni ha insanguinato la sua zona e sulla possibilità che fra gli uomini seduti fuori ci siano i responsabili di attacchi contro americani e stranieri, lo sceicco glissa: "Non siamo stati noi. Erano stranieri. Non potevamo fermarli perché ci avrebbero ucciso", dice. Ma probabilmente sa di mentire: a fine giornata due degli uomini del cortile verranno portati via in manette, perché ricercati per un attentato che ha ucciso militari iracheni.
"Sappiamo bene che stiamo collaborando con persone che fino a qualche mese fa ci combattevano - spiega il colonnello Lillibridge, comandante terzo battaglione della 101sima divisione, stanziato nella zona di Manari - ma oggi non abbiamo scelta, né noi né loro".
A giudicare dalla zona intorno a Manari, nonostante i tanti problemi ancora presenti, la scommessa sta funzionando: i check point degli uomini della Sahwa hanno fatto diminuire le esplosioni di mine artigianali, a lungo l'arma più mortale della rivolta contro gli americani, da pochi giorni una cisterna ha sostituito il canale come fonte principale di acqua potabile per la gente del villaggio e sono arrivati i finanziamenti per rimettere su la scuola del villaggio, chiusa da anni. La stessa cosa, lentamente, sta accadendo in molte zone del paese: nella provincia di Anbar, una volta una delle zone più sanguinose dell'Iraq, nel nord, e a Bagdad, dove gli investimenti americani, in termini di soldi e di uomini, sono stati maggiori.
"È un processo lento, ma sta funzionando", sostiene il colonello Lillibridge. Alla sua terza rotazione in Iraq, quest'uomo deciso ma gentile ha uno scopo ben preciso: evitarne una quarta. Lo dice scherzando, e poi spiega: "Dobbiamo impegnarci a fare sì che siano gli iracheni a prendere in mano la situazione: quello che possiamo fare noi è guidarli, sostenere i primi passi, ma poi devono essere in grado di agire da soli".
Se e quanto questa tattica possa durare nel lungo periodo è ancora tutto da vedere: i miliziani della Sahwa potrebbero tornare sui loro passi in ogni momento e tutti, da Petraeus in giù, sanno che da soli questi uomini non bastano e solo un cambio di politica a livello nazionale potrebbe far davvero voltare pagina all'Iraq.
Il traguardo però sembra sempre lontanissimo: solo due giorni fa una conferenza di riconciliazione fra i partiti - l'ennesima - è fallita prima ancora di iniziare per l'assenza dei più importanti rappresentanti sunniti e l'appello del premier Al Maliki - "questa è la nostra unica ancora di salvezza" - è stato accolto dalla gente con scetticismo. Tutti qui sanno che se le violenze sono diminuite è anche perché il paese è ormai rigidamente diviso in zone sciite, sunnite e curde: le occasioni di incontro, e di scontro, fra i gruppi diversi sono calate in modo drastico per effetto della pulizia etnica degli ultimi anni che ha spinto le famiglie a rifugiarsi vicino a quelle della stessa religione o etnia. Questo è evidente soprattutto a Bagdad, dove la gente parla con nostalgia della vecchia città aperta e cosmopolita uccisa da Saddam prima e dalla guerra poi.
Oggi, fra i giovani soprattutto, non resta che diffidenza e voglia di fuga. "La mia famiglia si è spostata a vivere in una base americana vicino l'aeroporto - racconta Sara, 23 anni, da quattro interprete per l'esercito Usa - se sapessero cosa facciamo per vivere ci ucciderebbero tutti. Di amici non ne ho più perché non potrei raccontare loro la verità. Il mio unico sogno è lasciare questo paese e andare a vivere in America, dove c'è libertà". Frase ironica, se si pensa che Sara lavora per chi cinque anni fa la libertà aveva promesso di portargliela a casa.
(20 marzo 2008) - La Repubblica
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